“Viviamo un’ansia che prima era riservata alle celebrità. Sappiamo di essere visti, osservati, spiati anche solo da ex fidanzati, ex compagni di scuola o conoscenti a cui siamo antipatici. Ci sentiamo sotto esame, perché in effetti lo siamo, e anche quando ci sottraiamo ai trend dei social non siamo in realtà immuni dai loro effetti”.
In “Specchio delle mie brame” (Einaudi, 2022), fresco di vittoria alla 37esima edizione del Premio Rapallo Bper Banca nella sezione saggistica, ex aequo con “Donna con libro” (Salani, 2022) di Bianca Pitzorno, Maura Gancitano ci fa avventurare in un viaggio interessante e scomodo, alla scoperta di come la bellezza sia diventata “un’ossessione, una malattia, un mito irraggiungibile”. Di come lo specchio si sia trasformato in una prigione. Di quali strade esistano per liberarsene, senza spaccarlo in mille dolorosi pezzi, senza ferirsi, senza sentirsi sovversive.
Il femminile è quasi d’obbligo, perché è vero che l’autrice, filosofa, scrittrice e fondatrice della casa editrice Tlon, riconosce come anche gli uomini stiano velocemente scivolando dietro le stesse gabbie, ma nessuno quanto le donne può sapere cosa significhi restare intrappolate nel carcere del corpo. Betty Friedan nel 1963 con il suo “La mistica della femminilità” ci aveva già avvertito sulla falsità della perfetta madre e moglie americana immortalata nelle pubblicità degli anni Sessanta. Ma è stata Naomi Wolf, ne “Il mito della bellezza” (pubblicato in Italia per la prima volta nel 1991 e appena riedito proprio da Tlon), ad aprirci gli occhi sulla nuova schiavitù degli anni Novanta, figlia della pressione legata all’aspetto fisico che ha modificato profondamente la percezione di noi stesse, della nostra identità personale, delle nostre scelte di vita.
Merito di Gancitano è accompagnarci a ripercorrere origini e cammino di quel mito e a mostrarci quanto oggi si sia fatto insidioso e pervasivo, anche facendo riferimento al suo vissuto personale. Costringendoci a fare i conti con i nostri ricordi: quando per la prima volta il nostro corpo ci è apparso “strano, indefinibile e sbagliato”? Quando ci siamo accorte di quel difetto che ci tormenta, come Vitangelo Moscarda del suo naso storto in “Uno, nessuno e centomila” di Pirandello? Quando abbiamo cominciato a dirci “che male c’è a sentirsi più a proprio agio con sé stesse?” ricorrendo a sedute, trattamenti, ritocchi? Succede in genere molto presto nella vita di una donna, e ormai accade sempre prima.
Ecco, “la religione della bellezza si basa sul riconoscimento del tuo senso di insoddisfazione, sull’illusione di poterlo risolvere, ma in realtà alimenta la frustrazione che provi nel non esserci riuscita, e quindi il desiderio di trovare altri modi, altri prodotti, altri trattamenti”. Colpa, frustrazione, reazione. Game, set, match. Così vince il sistema basato sul controllo dei corpi e il fiorente mercato che ne deriva. Perché “il primo modo per redimersi è comprare”. E perché lo standard della bellezza, i modelli di perfezione ideali e irraggiungibili, sono una forma di controllo fisico, ma soprattutto emotivo e psicologico.
Come in ogni recente riflessione femminile, sono lo spazio e il potere a finire illuminati. Il mito della bellezza si basa, infatti, sugli stessi meccanismi che hanno connotato la storia della medicina: gigantesca eco ai sentimenti maschili predominanti, che rendevano la gravidanza una malattia, le mestruazioni un disturbo cronico, le donne il sesso debole e inferiore. Gancitano cita cosa è successo alle donne statunitensi tra il 1865 e il 1920, quando le ricche venivano viste come delicate e fragili, mentre le operaie erano considerate sane e robuste, ma pericolose portatrici di malattie.
Il mito della bellezza è diventato indispensabile quando le donne hanno acquisito più libertà, “minacciando di destabilizzare l’ordine socioeconomico e una cultura dominata dall’uomo”. Dove non funzionava più il controllo esplicito degli spazi e della vita delle donne, sono subentrati lo standard estetico e l’ansia da prestazione che ne consegue. Al posto dello sguardo maschile che decideva i canoni nella pittura e nell’arte (il nudo artistico europeo, a differenza della nudità “attiva” nella tradizione indiana, persiana, africana e precolombiana, è un esempio classico di esibizione di potere), sono arrivate nell’Ottocento la fotografia e poi la pubblicità, sempre colonizzate dalla prospettiva degli uomini, a diffondere continuamente simboli e a suscitare desideri.
Così, in uno slalom tra studi, ricerche e aneddoti (spalanca un mondo scoprire come la cellulite sia stata inventata come problema negli anni Venti del Novecento in Francia o come la magrezza sia diventata un valore o ancora come sono nate le taglie), “Specchio delle mie brame” svela il disinnesco di un ordigno potenzialmente deflagrante: tutte le donne e quelle in carriera in particolare, ritenute un pericolo perché critiche e consapevoli, sono state ammansite, consolate, spinte a sentirsi in colpa. Incatenate in modo nuovo, attraverso la rincorsa della perfezione, al vecchio status di “oggetti da guardare” e da ritrarre, o anche solo da desiderare.
La teoria dell’auto-oggettivazione, formulata nel 1997 da Barbara L. Fredrickson e Tomi-Ann Roberts, sostiene a ragion veduta che i corpi femminili vengono valutati e osservati in misura maggiore rispetto a quelli maschili e percepiti come oggetti. Cambiano i tempi e i modi, ma ci determiniamo e differenziamo in relazione all’uomo, e non viceversa, come scriveva Simone de Beauvoir: “Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro”. Il risultato è che noi stesse interiorizziamo la prospettiva di un osservatore esterno, come se avessimo dentro un “estraneo giudicante” con il dito perennemente puntato su ciò che non va nel nostro corpo e su quanto siamo pigre e non riusciamo a rimediare. Senza compassione né perdono, Peggio ancora, l’auto-oggettivazione riduce quelle sensazioni di totale assorbimento nell’esecuzione o nello scorrere fluido di un’attività fisica o mentale. “È come – scrive l’autrice – se la questione della bellezza rappresentasse una continua interferenza che rende difficilissimo sentirsi nel flusso”. Alzi la mano chi non lo ha mai percepito.
Logico, per le donne, crescere pensando che piacere sia la conferma del loro valore. “Le ragazzine – aveva scritto Naomi Wolf – imparano non il desiderio verso un’altra persona, ma il desiderio di essere desiderate. E questo occupa lo spazio che dovrebbe essere dedicato a scoprire quello che loro vogliono”.
Per chi lo nega o minimizza, ci sono i numeri sul tempo e le energie dedicate dalle donne al corpo che Gancitano mette in fila, derivanti da ricerche accademiche, soprattutto americane: secondo la geografa Joni Seager (autrice de “L’Atlante delle donne”, add editore, Torino) il 92% dei 17,1 milioni di interventi di chirurgia plastica ed estetica effettuati nel 2016 aveva come paziente una donna, così come tra l’85 e il 90% delle operazioni estetiche su scala globale. In media, le statunitensi impiegano 55 minuti al giorno per prepararsi, due settimane l’anno.
Le donne guadagnano meno degli uomini, ma spendono il triplo in trucchi, parrucchiere, cerette, creme, manicure e chi più ne ha più ne metta. Prodotti non certo di prima necessità. E no, “in quest’ottica trucco e parrucco non sono strumenti di cura di sé, ma un obbligo culturale”. Anche perché l’industria della bellezza, segmentando i corpi in porzioni sempre più piccole, “produce sempre nuove soluzioni a problemi che non sapevamo di avere”. Anche in questo caso, alzi la mano chi non lo ha notato semplicemente aggirandosi tra gli scaffali di farmacie e profumerie.
È evidente quanto i social e la moltiplicazione prismatica delle nostre immagini abbiano portato tutti a comportarsi come se si stesse sempre davanti a un obiettivo. Meno evidente, ma confermato dalle indagini specifiche, è quanto le donne siano molto più insoddisfatte del loro aspetto naturale e tese a modificarsi, anche soltanto attraverso le app di editing. Un’insoddisfazione che esiste da decenni e non fa che peggiorare. Ma davanti a questa spinta verso il levigato e il conforme si rafforza la bellezza che colpevolizza e sparisce la bellezza che stimola, quella teorizzata dai filosofi come enigma e mistero, come tensione verso l’alterità.
Come uscire dalla prigione? Gancitano diffida delle campagne sulla body positivity, dei messaggi “sei bella come sei”, delle dive che si mostrano senza trucco e scelgono i capelli bianchi (“violazioni” che avvengono a livello del singolo individuo straordinario e là restano), perché riportano l’attenzione sul corpo e continuano ad associare il valore personale alla bellezza, che rimane il fulcro della narrazione. Suggerisce un’altra via, che ha a che fare con la “fioritura personale” e con la messa in discussione del mercato. Non la sveliamo, perché il libro va letto e meditato, anche dagli uomini. Ma sappiate che la soluzione non riguarda il corpo: riguarda la nostra capacità di riappropriarci della vita, e di darle un senso.
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Titolo: “Specchio delle mie brame”
Autrice: Maura Gancitano
Editore: Einaudi, 2022
Prezzo: 14 euro
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