Elezioni: diritti e questioni di genere grandi assenti in campagna elettorale

microfono

Il potere è una questione di spazio: non chiedere il permesso e rivendicarlo significa padroneggiarne gli strumenti, guidarne gli esiti, diventare la prima presidente del Consiglio. Giorgia Meloni è a capo del governo ed è anche la leader del partito che ha eletto meno donne in Parlamento. Tra le file di Fratelli d’Italia, le deputate e le senatrici sono 33 alla Camera e 17 al Senato, per un totale di 50 su 185 rappresentanti. Appena il 27%. In totale, le donne in Parlamento si contano nel margine: il 31% del totale, il primo calo da vent’anni. Una subalternità numerica che rispecchia quella delle tematiche di genere trattate in campagna elettorale: quasi del tutto inesistenti.

Lo dimostrano i dati presentati lo scorso 7 novembre durante il seminario “Che genere di campagna elettorale? Le candidate, le elette, i dati delle elezioni 2022”, organizzato dal Dipartimento di Comunicazione e Ricerche sociali dell’Università Sapienza di Roma. A commentarli Cecilia D’Elia (Pd) – portavoce della Conferenza delle donne del Partito democratico, rieletta in Senato – e Chiara Colosimo (Fdi), già consigliera regionale nel Lazio e ora deputata alla Camera.

“La ricerca nasce nel 2017 nell’ambito del Prin, progetti di ricerca di interesse nazionale”, spiega Flaminia Saccà, coordinatrice dell’unità di ricerca e professoressa ordinaria di sociologia dei fenomeni politici in Sapienza. “Già nel 2018 avevamo monitorato le campagne elettorali attraverso i canali social dei principali candidati e candidate per capire come si autorappresentassero senza le tradizionali mediazioni giornalistiche. Quello che è emerso, sia nella campagna 2018 che in quest’ultima, è che le tematiche di genere sono state veramente molto marginali. Anzi: quasi del tutto assenti. Non stiamo migliorando, stiamo addirittura andando indietro”.

La metodologia di analisi

I dati raccolti si avvalgono dello studio dei big data: intelligenza artificiale per raccogliere grandi quantità di dati e costruire evidenze tematiche che sappiano parlare al pubblico. Come spiega Ugo Esposito, founder di Kapusons, la web agency che ha collaborato alla ricerca, “la piattaforma che utilizziamo per raccogliere i dati è WebLive, l’unica in Italia certificata da Facebook: la chiamiamo al femminile perché è una piccola intelligenza artificiale che abbiamo costruito più di 12 anni fa. Lavoriamo su 47 lingue e facciamo monitoraggio anche a livello internazionale: la prima ricerca svolta è stata nel 2001, focalizzata sui siti politici dei candidati”. Cosa è cambiato in vent’anni? Secondo Esposito, soltanto gli strumenti di comunicazione. Non l’atteggiamento verso gli stessi: “Se vent’anni fa si apriva il sito e il giorno dopo le elezioni veniva dismesso, adesso i dati ci dicono che il giorno dopo le elezioni quasi tutti i social vengono nuovamente abbandonati o comunque c’è una produzione decisamente più bassa rispetto alla campagna elettorale”.

La cura della metodologia resta invariata, a prescindere dall’oggetto di analisi: “su Facebook riusciamo ad analizzare tutti i contenuti delle pagine pubbliche, non i contenuti di profili privati. Stessa cosa per Twitter, Instagram e Tik Tok. Su LinkedIn, invece, utilizziamo la tecnica dello scraping: analizziamo l’html che compone la pagina e ricaviamo i dati che ci sono utili all’analisi. Una volta immagazzinati, vengono analizzati dall’intelligenza artificiale che auto-apprende sulle base dell’esperienza: scarta le informazioni non rivelanti regolandosi su un modello di analisi impostato dai ricercatori. Le tematizzazioni vengono indagate attraverso una serie di query, una specifica richiesta di risultati: su un corpus di decine di migliaia di post andiamo a elaborare delle query tema per tema, ricostruendoli. La piattaforma ne propone alcuni, in base alle occorrenze maggiori, poi i ricercatori costruiscono un modello sulle tematiche d’interesse”.

Questo approccio permette di indagare non solo l’autorappresentazione dei candidati e delle candidate, ma anche la tematizzazione dettata dai media sui social: “Sei anni fa abbiamo messo in piedi l’osservatorio Euromood partendo dalla convinzione che sui social le più grandi testate editoriali mondiali replicano dei comportamenti editoriali dettati da logiche differenti dal giornale vero o proprio dal loro sito. Su Facebook, ad esempio, tutte le testate fanno una selezione di articoli sulla base degli input che l’algoritmo di quella piattaforma fornisce. Fatto questo tipo di assunzione, siamo in grado ogni giorno di sapere di cosa si parla in un determinato Paese e qual è il tasso di interesse”.

Il primo esperimento prende avvio nel 2018: “Abbiamo applicato questo tipo di analisi a 43 testate editoriali italiane, le più importanti secondo Audiweb, e la nostra intelligenza artificiale ci aveva proposto dei dati di interesse del pubblico che poi hanno rispecchiato i risultati ottenuti dalle singole forze politiche. I sondaggi, invece, registravano range più elevati. Lo stesso è accaduto nel 2019 con la vittoria della Lega alle elezioni europee”.

Nel 2022, all’analisi dell’agenda dei media si affianca l’analisi di tutti i profili pubblici delle principali personalità candidate: “Abbiamo fatto una selezione di 40 profili sulla base del numero dei follower e abbiamo moderato la selezione per rappresentare le varie forze politiche in campo. Il dato più eclatante è che per la prima volta in campagna elettorale l’interesse per i contenuti politici decresce rispetto al periodo di pre campagna: “Nel 2018 si è registrato il 13,9% di interesse del pubblico sui temi politici, nel 2022 invece l’interesse si attesta al 22% prima della campagna elettorale e poi scende al 16,8%. Un gap significativo perché, di solito, l’interesse per i temi politici sale proprio nei giorni prima del voto: il dato è assolutamente nuovo e ci racconta come, di fatto, questa campagna fosse già decisa dalla legge elettorale”.

03__sacca_esposito_fratello_colosimo_deliaQuestioni di genere, le grandi assenti

Come emerge dalle parole di Esposito, “non c’è stata campagna, non ci sono stati temi ma autorappresentazioni dei partiti e delle forze in campo. E, ancora di più, sui temi di genere non abbiamo riscontrato quasi nulla”. La sola presenza di Giorgia Meloni è sembrata aver risolto di per sé la questione di genere: “Mancando i temi, di fatto anche i temi di genere sono scomparsi: equivalgono a pochi post sulla legge 194. Prima di queste elezioni a confrontarsi erano sempre gli uomini, perciò è bastata Meloni premier in pectore ad assolvere la classica politica italiana dal dover affrontare i temi di genere. Dal canto suo Meloni, essendo in vantaggio, non ha dibattuto su temi caldi, come i diritti civili, per non essere divisiva: non ha inseguito la polarizzazione, a differenza di Letta che invece ha legittimato il bipolarismo tra le forze politiche. In questo caso avrebbe premiato di più una campagna aggregativa, fatta di proposte e di sogno. Un aspetto che, invece, è decisamente mancato. L’unica strategia politica in grado di vincere è stata quella del cosiddetto effetto bandwagon: salire sul carro dei vincitori”.

La politica delle donne non parla alle donne

Ruoli di genere, stereotipi ben definiti e spazi risicati: le donne parlano poco – per numero di contenuti prodotti sui rispettivi canali social primeggiano sul podio solo uomini (Calenda, Paragone e Salvini) –  e di donne si parla poco. Quando lo si fa, accade in relazione a immaginari tradizionali e obiettivi politici specifici: “Nel 2018 si è parlato di donne soprattutto in relazione alla violenza di genere e in seguito a due casi orribili di femminicidio: le uccisioni di Pamela Mastropietro e Jessica Faoro, esplose sulla stampa durante la campagna elettorale, sono divenute oggetto di strumentalizzazione per parlare del pericolo migrazione, per cui gli stranieri sarebbero i maggiori responsabili di stupri e femminicidi. Una tesi non supportata dai dati poiché le statistiche dimostrano come il problema della violenza di genere in Italia sia assolutamente domestico: per oltre la metà dei casi di femminicidio (51,7%) le donne sono uccise dal partner. Si sarebbe potuto parlare di strumenti di prevenzione e contrasto alla violenza di genere, invece l’attenzione è stata deviata sul problema della sicurezza rispetto agli immigrati”.

Dal 2018 a oggi l’approccio non cambia e la tematizzazione dei diritti delle donne continua ad avvenire per punti strategici: “Già allora, per esempio, Giorgia Meloni aveva chiarito che per lei occuparsi di donne in politica, anche dal punto di vista del programma, significava occuparsi di madri: sostanzialmente del diritto delle donne a essere madri e anche lavoratrici”, afferma Saccà. “Una linea che rispecchia quello che abbiamo sentito anche in questa campagna elettorale e ben descritto dal concetto diventato tormentone: sono una madre, sono una donna, sono cristiana”.

Non va diversamente in altri orizzonti politici. Temi di genere come aborto, lavoro di cura e occupazione femminile compaiono timidamente nelle work cloud – la rappresentazione grafica della parole chiave più usate nei post – di Emma Bonino (+Eu), Elly Schlein (Pd), Mariastella Gelmini (Azione), Chiara Appendino (M5s) e Laura Boldrini (Pd): quasi sempre citazioni, mai argomenti portanti. Nella work cloud di Enrico Letta, dopo la parola “campagna elettorale” spicca il nome “Giorgia Meloni”. Lo stesso accade per gli altri leader di partito uomini.

Anche il tema dell’aborto, caldo all’attenzione mediatica, non è stato centrale. Si trova citato solo in minima parte, nello 0,6% dei post di tutti i candidati e le candidate prese in esame. “Quando Meloni parla di aborto lo fa per ribadire che tutto il suo sforzo è volto alla piena applicazione della legge 194 e per supportare le donne che decidono di non abortire”, sottolinea Saccà. Tra i 5 top post che hanno generato più interazioni sui social, spicca una foto postata su Facebook dalla leader di Fratelli d’Italia lo scorso 12 settembre. La premier si ritrae vicino alla figlia, augurandole buon primo giorno di scuola: “Solo l’amore può darti l’energia che serve a non abbassare mai la testa”.

Perché ignorare i temi di genere non significa silenziarli: il dibattito

Presentare i dati a una platea di studenti di giornalismo e gender studies, alla presenza di voci politiche come quelle di D’Elia e Colosimo, ha aggiunto un’ulteriore evidenza alla ricerca: non parlare di temi genere non significa silenziare le voci che rivendicano lo spazio che è mancato. Ma ignorare le istanze di una parte ben definita della popolazione. Un’agenda che mette al centro le tematiche di genere dovrebbe parlare, prima di tutto, di rappresentanza: una democrazia è tale quando riesce a dare rappresentanza tutte le parti della popolazione. Questo è un problema che dovrebbe entrare nell’agenda politica con forza perché significa dare pieno diritto di cittadinanza a metà della popolazione”, aggiunge Saccà.

Da sinistra, la deputata Colosimo e la senatrice D'Elia

Da sinistra, la deputata Colosimo e la senatrice D’Elia

Le studenti nominano il soffitto di cristallo, la necessità di declinarsi al femminile, la potenza politica di forma e significato. “Nel mondo in cui sono cresciuta io non c’è stata mai l’esigenza di affermarsi in quanto donne”, risponde Colosimo. “Il percorso di Giorgia Meloni ha sorpassato nei fatti la necessità di specificare di essere donne: io stessa ero l’unica della mia sezione. Ma ci hanno spiegato che non importava se portassimo i tacchi o i pantaloni: a contare è quello che facciamo. I termini che si usano ci rappresentano: siamo servitori delle istituzioni e ci interessa sottolineare questo. Il fatto che Meloni sia una madre e sia riuscita ad affermarsi in un mondo a predominio maschile dimostra che non conta essere donne, ma l’autenticità con cui ti presenti: rivendicare chi si è e quello che si è fatto. Vogliamo occuparci di conciliazione vita- lavoro per mettere le donne in condizioni di parità, senza il bisogno di specificare che ce ne occupiamo perché donne”.

“Non parliamo di conciliazione ma di condivisione”, controbatte D’Elia. “Non è possibile distinguere il ruolo dal soggetto che lo incarna – aggiunge la senatrice dem – ma nell’uso comune tante donne, temendo per la loro autorevolezza, si declinano al maschile: ciò nonostante, le donne di destra si definiscono come meglio credono perché abbiamo guadagnato con il femminismo questa la libertà”. Le fa eco Colosimo: “Parliamo di libertà ma attacchiamo chi sceglie di declinarsi al maschile”. “Meloni gender fluid? Sarebbe una notizia” aggiunge una studente. “Non è nostra la battaglia di identificarsi nel genere che si preferisce”, chiarisce la deputata di Fdi.

L’importanza dei diritti

All’importanza del linguaggio, si lega quella dei diritti: molte le domande su aborto e autodeterminazione, che secondo una studente è “assolutamente non garantita”. ”Da persona cattolica e credente, quando parliamo di aborto dobbiamo considerare il Paese in cui viviamo e il suo contesto culturale che ancora lo stigmatizza”, aggiunge una collega. Citano l’inchiesta “Mai dati” sull’applicazione della 194 in Italia, chiedono trasparenza e dati aperti sui numeri di obiettori per struttura sanitaria.

“Anche l’obiezione è garantita dalle legge 194. Oltre che di quante donne abortiscono, dobbiamo parlare anche delle modalità attraverso cui questo diritto viene erogato”, afferma Colosimo. “L’unico caso in cui lo Stato chiede di pensarci su è l’aborto”, specifica D’Elia. Una battaglia che è stata combattuta dalle donne e che è stata vinta grazie alle loro lotte: ragazze, denunciate quando non vi viene garantito. Non è il diritto all’aborto a ostacolare la natalità, ma sono le politiche economiche e gli investimenti sulle nuove generazioni che devono essere più solidi e strutturali. Io sono femminista e quindi la mia campagna elettorale non può non avere i temi di genere al centro: penso che non siano temi di donne, ma questioni di organizzazione sociale che riguardano tutto il Paese”.

Perché non è emerso in campagna elettorale?Avevamo una serie di proposte, dall’occupazione femminile al lavoro di cura fino alla parità salariale, che non sono mai venute fuori: non abbiamo presidiato i temi che avevamo scritto nel programma, se non in opposizione a quello fatto dall’altra parte. Sull’aborto, ad esempio, si è discusso in relazione agli esempi di Polonia e Ungheria ritenuti virtuosi da Salvini”, spiega D’Elia.

Una strategia rivelatasi poco efficace e complicata ulteriormente dalla legge elettorale: “Quest’anno ho sostenuto due campagne elettorali perché sono stata candidata anche alle suppletive: ho visto quindi la differenza tra essere candidata in un collegio uninominale – in cui sei tu stessa a rappresentare il programma insieme a quello che sei e  fai – ed essere capolista in un collegio plurinominale che comprende una vastità di territori diversi tra loro e difficili da presidiare fisicamente attraverso i temi che porti avanti”.

Una “nuova idea”: non chiedere permesso 

A sfondare il soffitto di cristallo ha iniziato l’ex premier britannica Margaret Thatcher, un’altra donna di destra. “Le donne di destra hanno un rapporto chiaro con il potere: capiscono come funziona, non è un tabù, non chiedono al maschio decisore di concedere loro spazi. Non rappresentano una sfida per le regole del gioco e per questo sono avvertite come meno pericolose, spiega Saccà.

Meloni non ha aspettato “che qualcun altro gli aprisse la porta” e, aggiunge D’Elia, “il suo primato è un fatto storico. Tuttavia, per cambiare le cose e le relazioni di potere, ci vuole un’altra idea”. Le studenti concordano: un’idea che non chieda il permesso e si metta in ascolto. Oggi in un’aula universitaria, domani chissà.

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