Ecco perché il modo in cui descrivi il tuo lavoro influenza come lo fai

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Passiamo lavorando più tempo di quanto ne passiamo facendo qualunque altra cosa. Considerando una media, lavoriamo più o meno dai 21 ai 68 anni, ogni giorno, per circa otto ore al giorno. Non sorprende quindi che le ricerche attribuiscano al ruolo lavorativo una parte preminente dell’impatto sulla soddisfazione complessiva che le persone provano verso sé stesse.

Il modo in cui ci fa sentire la professione che indossiamo influenza la nostra idea di noi, e di conseguenza il nostro modo di presentarci e relazionarci con gli altri in tutti gli ambiti. Accade perché la sensazione di un buon equilibrio tra le varie cose che siamo ci è necessaria per sentirci al sicuro, e quindi tra i nostri ruoli c’è un continuo, inconsapevole accordarsi alla ricerca di un’armonia che dia un senso al tutto.

Identità lavorativa

Le ricerche in ambito psicologico hanno individuato quattro modi in cui un’identità lavorativa positiva può migliorare la nostra percezione di noi, con un effetto di straripamento (che la scienza chiama “spill-over”) su tutti gli ambiti, anche quelli extra lavorativi, ma soprattutto con un effetto positivo sulla quantità di energia, motivazione e propensione alle relazioni che portiamo sul luogo di lavoro.

1) Il primo indirizzo riguarda il livello di “virtù” che associamo alla nostra professione, ovvero la quantità di tratti virtuosi con cui la descriveremmo. I tratti virtuosi sono un aspetto poetico della civiltà umana: si tratta di caratteristiche universalmente riconosciute come positive, a indicarne un’utilità di fondo per la sopravvivenza della nostra specie. Secondo gli psicologi Peterson e Seligman, sono 24, e tra queste troviamo il coraggio, l’integrità, la compassione, l’umiltà, la temperanza e la saggezza. Un esempio concreto dell’effetto benefico che deriva dall’aggiungere queste caratteristiche al senso del proprio lavoro emerge da un esperimento fatto con i dipendenti di un’impresa di pulizie di un ospedale: nel momento in cui al loro ruolo hanno associato un tratto di cura, la loro attitudine verso tutte le loro mansioni è cambiata nella direzione di una maggiore collaborazione e proattività.

Ogni professione ha delle dimensioni virtuose per il semplice fatto che offre un servizio e che è interpretata in modo umano (ovvero da esseri umani): un buon test da fare è descrivere la propria e verificare quanti tratti virtuosi emergono o quanti se ne potrebbero aggiungere, e come cambia la percezione di valore in conseguenza a tale aggiunta.

2) La seconda strada di costruzione di un’identità lavorativa positiva riguarda la valutazione che diamo o che pensiamo venga data da altri a quel che facciamo. Anche questa può variare nel tempo e non dipende direttamente dal contenuto della professione, quanto dalle caratteristiche che vi vengono associate socialmente. Pensiamo per esempio a come è cambiata nel nostro immaginario la professione del cuoco da quando c’è “Master Chef”: una valutazione più o meno positiva può dipendere interamente dalla cornice che viene data a quel ruolo dalle circostanze o dal momento storico.

Se quel che facciamo è bello o no, in estrema sintesi, dipende da definizioni sociali che variano nel tempo, e può essere influenzato anche dalla nostra prospettiva: saremmo in grado oggi, noi o la categoria da cui ci sentiamo rappresentati, di dare una definizione del nostro lavoro tale da aumentare la nostra autostima?

3) Spostandosi da una prospettiva di contenuto e di valutazione a una di progresso nel tempo, la terza modalità di valorizzazione dell’identità lavorativa riguarda la prospettiva “progressiva”: il ruolo professionale evolve nella direzione di un sé ideale, pur con imprevisti, interruzioni e ripartenze? O anche, l’identità lavorativa ritrova la propria collocazione in un senso di crescita in seguito a eventi imprevisti che la mettono in discussione, adattandosi di volta in volta?
Si tratta di una prospettiva più dinamica, che riguarda la capacità che il nostro cappello lavorativo ha di farci sentire più rilevanti in base a come sappiamo farlo progredire e adattarlo alle circostanze della nostra vita.

In sintesi, vediamo in quel che facciamo un chiaro senso rispetto al più ampio dipanarsi delle nostre vite?

4) Vi è infine una prospettiva strutturale che riguarda il modo in cui l’identità lavorativa si organizza in combinazione con le altre dimensioni identitarie che ognuno di noi ha: la presenza di conflitti tra le diverse dimensioni impedirebbe infatti il pieno benessere e la possibilità di esprimersi al meglio, e quindi una costruzione positiva dell’identità lavorativa poggia su una costante attività di bilanciamento tra il bisogno di differenziarsi e quello di sentirsi inclusi (individuo vs collettività) e sulla capacità di individuare dei collegamenti tra i vari ruoli che si rivestono dentro e fuori il lavoro: delle complementarietà tra i nostri molti cappelli.

Ovvero: come possiamo identificare il nostro lavoro in relazione a quello degli altri: che cosa li differenzia e che cosa li tiene insieme, e come questa tensione si esprime e si risolve, all’interno della stessa persona, tra le tante cose che ognuno di noi è?

Questione di autostima

Se le dinamiche tra identità diverse, che naturalmente emergono sempre e che richiedono di essere gestite, vengono viste come portatrici di tensioni sane e affrontate in modo consapevole, il potenziale conflitto diventa fonte un arricchimento della costruzione dell’identità lavorativa, a beneficio di tutti gli attori coinvolti.

La Repubblica italiana è fondata sul lavoro e il lavoro è un diritto, oltre che un elemento essenziale alla partecipazione economica e civile. Ma il concetto di lavoro e la definizione stessa di che cosa sia un ruolo lavorativo possono variare, evolvere nel tempo, arricchirsi e assimilare i cambiamenti che avvengono nella società. Ogni persona può quindi dare diverso spessore alla definizione di quel fa: ricevendo, in cambio, diversi livelli di autostima e di benessere da un’attività che, bene o male, occupa buona parte delle nostre vite.

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