Management, il pensiero dirompente delle donne

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Tra fine Ottocento e inizio Novecento, agli albori della rivoluzione industriale, avevano già messo a fuoco qual era il principale fattore critico di successo del governo di un’organizzazione: il fattore umano. Eppure, nonostante la visione dirompente per quell’epoca, sono state volutamente dimenticate, se non rimosse, dalla storia economica. Alla credenza diffusa che le donne non siano state capaci di innovare nelle rispettive discipline di competenza, Luisa Pogliana, studiosa di management, risponde senza mezzi termini: “Sono finite nell’oblio proprio perché hanno osato andare controcorrente e formulare nuove teorie, troppo scomode per coloro che detenevano il potere. A partire dalle accademie e dalle business school”. È un punto essenziale questo, se non vogliamo cadere nel periglioso tranello di credere che alle donne manchi – ieri come oggi – la capacità di una visione rivoluzionaria e sovversiva.

Quello che si prova leggendo l’ultimo lavoro di Pogliana, dal titolo “Una sorprendente genealogia” (GueriniNext, 2022), è una profonda ammirazione per quelle che potremmo definire le pioniere del management e l’orgoglio, non privo di commozione, di sentirsi parte della storia di un pensiero femminile di straordinario valore. Sono diversi gli elementi che ne distinguono l’approccio dall’Ottocento sino ad oggi: guardare alla realtà, superando la divisione tra teoria e pratica; concepire il potere non come dominio, ma come responsabilità condivisa, basata sull’autorità; considerare la leadership uno strumento per far accadere le cose attraverso le persone, solo per citarne alcuni. E, forse il più importante di tutti: essere portatrici di un cambiamento del management che riguarda l’intera società.

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Ne deriva lo sviluppo di una ricerca empirica puntuale, in cui affiorano due chiavi di lettura di grande attualità: il legame tra management ed equità sociale e la sua connessione con la sostenibilità del lavoro.Nessuna di loro ha mai considerato il management come un fatto tecnico, ma piuttosto come responsabilità sociale – osserva Pogliana -. Nella fase storica in cui nasceva la necessità di governare aziende di grandi dimensioni, le due prime studiose – Beatrice Webb (1858-1943)i n Inghilterra e Mary Parker Follett (1868-1933) in America – hanno subito intuito l’urgenza di trovare un equilibrio tra proprietà e operai, in modo che i diversi interessi e diritti in gioco si conciliassero e fossero tutelati. Il management, nella loro ricerca, è considerato un agente della società, e il manager una figura sociale, preposto a garantire il suddetto equilibrio”.

Ad emergere è una prospettiva sociologica che influenzerà anche le studiose successive, spesso coinvolte in varie forme di attivismo civile e politico, come la Webb che diventò una figura di riferimento del laburismo inglese, convinta che l’agire politico debba manifestarsi dentro la società. Oltre ad aver fondato, assieme al marito, la London School of Economics, la prima università con orientamento progressista nel Regno Unito.

Che cosa significhi sostenibilità del lavoro era un concetto assai chiaro già allora, almeno ai loro occhi. Il lavoro deve avere un senso e deve essere dignitoso, perché strettamente connesso all’identità della persona. “Illuminante su questo tema è il lavoro della Follet che nel saggio Power distingue tra power over e power with. Se il primo coincide con l’esercizio del potere come dominio, il secondo indica il potere condiviso, basato sulla partecipazione dei lavoratori al processo decisionale, che restituisce loro il significato, e dunque la dignità del lavoro, oltre a spingere a una maggiore assunzione di responsabilità individuale e collettiva” spiega l’esperta. Alla base della ricerca di Follett c’è la centralità delle relazioni umane come aspetto fondamentale dell’industria. Non per niente è riconosciuta da Peter Drucker – il fondatore del management moderno – come colei da cui proviene “quasi tutto ciò che si è scritto su leadership e organizzazione”. Peccato che il suo nome non sia certo noto come il suo…

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Bastano queste prime due pioniere della genealogia raccolta nel libro a far comprendere la portata dell’autorità femminile nel gettare le basi di un management umanistico, in forte contrapposizione alla visione taylorista allora emergente e allo scientific management che ne è derivato. Il loro testimone è stato raccolto da decine di altre studiose sulle due sponde dell’oceano, nel secondo dopoguerra e poi lungo tutto il Novecento sino alla contemporaneità, i cui lavori non possono che definirsi d’avanguardia. Joan Woodward (1916-1971), ad esempio, prima donna a far parte dei Magnificent Seven di Oxford, con una ricerca industriale empirica senza precedenti, rovescia la teoria dominante, dimostrando che ogni azienda ha in sé un implicito approccio organizzativo ottimale, la cui variabile fondamentale e il tipo di tecnologia che utilizza. Un affronto al modello mainstream di costruzione e trasmissione del sapere manageriale e di formazione della classe dirigente nelle business school, basato su rigide gerarchie di comando e controllo delle organizzazioni e della società, che le costerà caro.

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La storia ci insegna che è quest’ultimo – purtroppo – ad aver preso il sopravvento e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Oggi, dopo gli shock finanziari, pandemici e bellici, ci sono i presupposti per un’evoluzione significativa del capitalismo, un’occasione storica fa cogliere per riorientare le scelte e i comportamenti nelle organizzazioni, sia private che pubbliche.

Secondo Luisa Pogliana “le donne manager oggi, per quanto ancora numericamente sottorappresentate, stanno dimostrando di saper usare l’autonomia consona ai ruoli raggiunti, per introdurre policy e strumenti di rottura rispetto allo status quo, spesso correndo dei rischi. Ciò che noto è una sostanziale continuità rispetto alle donne pioniere del management, da cui è fondamentale continuare a trarre ispirazione e coraggio”. Un esempio su tutti, rimanendo in Italia, è stata Marisa Bellisario, che usò il potere della sua posizione apicale “per decidere, più che per comandare”, si racconta nel libro.

Rendere merito e diffondere il pensiero di coloro che hanno saputo sfidare il pensiero dominate – nel management, come in qualsiasi altra disciplina – diventa allora un preciso atto politico, per onorare l’eredità ricevuta e prenderne saldamente in mano le redini.

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