Cosa sappiamo (e cosa non sappiamo) sulla gender pay gap

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Il gender pay gap (GPG) è una differenza di genere nella retribuzione che non dovrebbe esserci: anche se donne e uomini sono diversi, la loro diversità non giustifica la disparità di trattamento come gruppo, perché “differenza non significa carenza” (Diane Halpern 2011).

Quando la fonte dei dati è l’Eurostat, il GPG è solitamente riferito alla retribuzione lorda oraria, ed è importante sottolineare che questo valore non misura tutta la differenza di genere nella retribuzione perché la Structure of Earnings Survey (SES), cioè la rilevazione da cui è ricavato, esclude l’intero settore agricolo, le imprese con meno di 10 addetti e tutti i dipendenti della pubblica amministrazione; è da notare, inoltre, che la dimensione del GPG triplica quando si passa dalla retribuzione oraria (5%) a quella mensile (16%), e tocca il massimo (18%) in quella annua (2018).

È anche opportuno ricordare che il primo problema per il nostro Paese è la differenza di genere nelle persone a salario zero. Le persone inattive, cioè quelle che pur essendo in età lavorativa non sono occupate né disoccupate ma restano fuori del mercato del lavoro, non sono ugualmente rappresentate nei due generi: la loro quota è pari al 26,4% per la componente maschile ma sale fino al 44,6% per la componente femminile (Eurostat 2021).

Il GPG grezzo, riferito alla differenza di retribuzione oraria, è calcolato da Eurostat (2020) ed è pari a 4,2% per l’Italia e a 13,0% per la media europea, ma per fornire una misura più corrispondente al vero differenziale retributivo di genere lo stesso Eurostat ha sviluppato un indicatore, denominato Gender overall earnings gap, che misura l’impatto di tre fattori specifici – guadagni orari, ore retribuite e tasso di occupazione – sul reddito mensile medio di uomini e donne in età lavorativa. Il valore di questo indicatore nel 2018 è risultato pari al 36,2% per l’Unione europea e al 43,0% per l’Italia.

Dalla lettura dei dati riferiti alla retribuzione mensile (SES 2018) si possono ricavare numerose informazioni utili per una più articolata descrizione del GPG:

Il GPG si allarga al crescere dell’età; infatti è pari all’8,2% nella classe d’età con meno di 30 anni, sale al 14,4% nella classe da 30 a 49 anni e raggiunge il 21,7% tra le persone con più di 50 anni.

Il GPG si allarga al crescere del titolo di studio; infatti è pari al 16,5% tra le persone che non hanno un diploma, e al 17% tra i diplomati, ma è quasi il doppio tra i laureati (29%).

Il GPG si allarga al crescere del livello gerarchico, sia nelle professioni manuali sia in quelle non manuali; ad esempio, è pari al 18,1% tra gli operai specializzati e al 12,1% nelle professioni non qualificate, è massimo tra i dirigenti (33,5%) e tra i professionisti (29,3%), e si riduce nelle professioni esecutive (13,2%).

Il GPG cresce al crescere della dimensione delle imprese, ma si riduce drasticamente nelle imprese con più di 1000 addetti; infatti è pari al 12,6% nella classe da 10 a 49 addetti,

al 16,1% nella classe da 50 a 249 addetti, al 16,3% nella classe da 250 a 499 addetti, ma scende al 15% per la classe da 500 a 1000 addetti e soprattutto si abbassa al 4,1% quando la dimensione supera i 1000 dipendenti.

Il GPG è maggiore nei contratti a tempo indeterminato; infatti è pari al 16,7% nei contratti a tempo indeterminato e al 14,8% nei contratti a termine.

Il GPG è maggiore in alcuni settori di attività; ad esempio, è massimo nelle attività artistiche, sportive, di intrattenimento e divertimento (59,7%) e nelle attività professionali, scientifiche e tecniche (25,3%), mentre si riduce drasticamente nei servizi di alloggio e ristorazione (7,3%) e si annulla o quasi nel settore estrattivo e minerario (0,9%).

Questi dati descrivono l’ordine di grandezza del GPG, ma cosa sappiamo sulle cause che lo determinano?

Sappiamo che donne e uomini fanno scelte diverse relativamente all’uso del tempo, ai percorsi formativi, alla professione e alla carriera, ma quando osserviamo nei dati gli esiti di queste decisioni[1], non sappiamo quanta parte di tali differenze derivi da preferenze genuine e quanta parte sia invece una conseguenza degli stereotipi sociali.

Ad esempio, sommando il tempo dedicato alla produzione domestica e quello dedicato alla produzione per il mercato, si nota che le donne che sono occupate a tempo pieno lavorano mediamente più ore degli uomini (Eurostat – TUS 2018), e anche l’Indice di asimmetria[2] nella condivisione del lavoro familiare, calcolato dall’Istat, conferma che il 70% del lavoro familiare è svolto dalle donne anche nelle coppie con figli in cui entrambi i coniugi sono occupati (2013).

Ad esempio, i dati del MIUR riferiti alle lauree magistrali indicano una concentrazione femminile superiore all’80% nelle classi: Linguistica; Psicologia; Storia dell’arte; Scienze pedagogiche ed altre ancora, mentre la presenza femminile risulta inferiore al 20% nelle classi di Informatica e di Ingegneria in tutte le loro declinazioni (elettrica; meccanica; astronautica; elettronica, e così via).

Ad esempio, i dati Istat (media 2014-16) indicano una presenza femminile superiore all’80% nelle seguenti professioni: Addetti alla sorveglianza di bambini; Estetisti e truccatori; Professioni qualificate nei servizi sanitari; Addetti alle funzioni di segreteria; Cassieri di esercizi commerciali; Addetti alla contabilità; Collaboratori domestici, ecc., e la massima concentrazione femminile si riscontra tra i Professori di scuola primaria (99,9%). Le donne sono invece una esigua minoranza (meno del 10%) tra gli Elettrotecnici (1%); Conduttori di mezzi pesanti e camion (1%); Autisti di taxi, furgoni e altri veicoli (4%); Operatori ecologici (7%); Tecnici del risparmio energetico (5%) ecc., e la massima concentrazione maschile si osserva tra gli Addetti alla manutenzione degli impianti fognari (99,9%).

Ad esempio, i dati dell’Osservatorio sui lavoratori dipendenti del settore privato non agricolo mostrano che la presenza femminile dimezza al crescere del livello gerarchico: le donne sono infatti il 58,6% degli impiegati, il 30,9% dei quadri e il 19,1% dei dirigenti (INPS 2020).

È vero che dai dati sopra citati non si può dedurre quanta parte delle sottostanti decisioni derivi da preferenze genuine e quanta parte sia invece una conseguenza degli stereotipi sociali, ma il condizionamento degli stereotipi è provato, oltre ogni ragionevole dubbio, da 30 anni di ricerche di economia sperimentale che dimostrano come gli stereotipi portino alla discriminazione, cioè alla disparità di trattamento a parità di altre condizioni. Gli esperimenti consentono infatti di approssimare la condizione di ceteris paribus perché, ad esempio, lo stesso curriculum è inviato alla valutazione alternativamente con un nome di uomo o con un nome di donna, simulando così la perfetta parità di caratteristiche produttive tra i due generi, e le differenze osservate nelle risposte (assunzioni, promozioni, retribuzioni, ecc.) evidenziano l’ordine di grandezza della disparità di trattamento di persone con le stesse caratteristiche produttive ma di genere diverso (Pedro Bordalo et al., 2019).

Da questi esperimenti sappiamo che il condizionamento degli stereotipi si manifesta sia dal lato dell’offerta (effetti degli stereotipi su di sé) sia dal lato della domanda di lavoro (effetti degli stereotipi altrui).

Gli errori di autovalutazione della componente femminile sono evidenziati dalla letteratura sull’assertività, sull’autostima, sull’avversione al rischio e sulla scarsa propensione alla competizione (Francine Blau e Lawrence Kahn 2016), ma una letteratura ancor più consistente mette in luce le conseguenze degli stereotipi dal lato della domanda, e conferma in modo sistematico che la stessa caratteristica produttiva viene retribuita mediamente di meno, o dà luogo ad una minor probabilità di assunzione e promozione, quando chi la possiede è di genere femminile.

Ad esempio, nell’esperimento condotto da Monica Biernat e Diane Kobrynowicz (1997), si osserva che in risposta alla candidatura per un ruolo dirigenziale, considerato più adatto agli uomini secondo lo stereotipo, le stesse competenze sono state valutate il doppio quando erano abbinate ad un nome maschile invece che ad un nome femminile.

Ad esempio, nell’esperimento che simula la valutazione delle cause che determinano il successo di un progetto (Kay Deaux e Tim Emswiller 1974), il buon risultato abbinato ad un nome maschile è più spesso attribuito alla competenza, mentre lo stesso esito abbinato ad un nome femminile è più spesso attribuito alla fortuna. Si noti che, anche in questo caso, è la stessa prestazione che viene valutata in modo diverso a seconda del genere di chi la realizza.

Sappiamo anche che una maggior presenza femminile tra i valutatori, spesso auspicata nella convinzione che le donne sappiano più facilmente riconoscere il merito di altre donne, non basta a garantire la parità di trattamento di una procedura di selezione. Ad esempio, la “sindrome dell’ape regina” è l’espressione usata in letteratura per indicare il comportamento delle donne di successo che difendono il loro predominio ostacolando la carriera di persone del loro stesso genere.

Sappiamo inoltre che gli stereotipi possono portare alla discriminazione del genere maschile, nei casi in cui la posizione lavorativa è stereotipata al femminile. Ad esempio, Magnus Carlsson (2011) evidenzia la discriminazione dei candidati di genere maschile per la posizione di maestra d’asilo.

Sappiamo infine che quando la selezione è “cieca al sesso”, cioè quando l’informazione sul genere è nascosta al selezionatore, le probabilità di successo della componente femminile aumentano nettamente (Claudia Goldin e Cecilia Rouse 2000).

Sappiamo dunque, riassumendo, che il talento e il merito non emergono semplicemente in risposta all’intenzione o al genere del decisore, e che gli errori di valutazione causati dagli stereotipi, pur se inconsapevoli e non intenzionali, portano ad uno spreco di risorse che danneggia le donne, le imprese e la società; questo danno è consistente e permane nel tempo, ed è importante esserne consapevoli perché la discriminazione non è un problema risolto, e i dati mostrano che chi crede il contrario è parte del problema.

[1] Assumendo come data la struttura degli incentivi, cioè delle retribuzioni, delle condizioni di lavoro, ecc.

[2] L’indice misura quanta parte del tempo dedicato da entrambi i partner al lavoro domestico, di cura, e di acquisti di beni e servizi è svolto dalle donne.

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