Qualche tempo fa su queste pagine avevo gettato lo sguardo sulla situazione della diversity all’interno dell’industria dei videogiochi. Per avere un quadro più completo di cosa succede in Italia ho lasciato ascoltato la voce di tre developer. Le loro storie, riflessioni e idee rendono uno spaccato del settore che conferma certi limiti concreti. Ma che inizia anche – seppure lentamente – a mostrare qualche segnale di cambiamento.
Maura Saccà
Maura Saccà, programmatrice di 28 anni laureata in informatica a Catania e poi studentessa di videogame design alla Statale di Milano (PONG – Playlab fOr inNovation in Games), racconta di essere cresciuta “in un ambiente privilegiato dal punto di vista dell’ambito video-ludico. Sono stati i miei genitori a regalarmi la mia prima Play Station e ad avvicinarmi al mondo del pc-gaming quando avevo poco più di 6 anni. Si può dire, quindi, che la passione per i videogiochi è nata senza barriere e senza vergogna”.
Agli studi Saccà affianca l’attività di organizzazione. “All’interno del percorso magistrale, io ed altr* ragazz* abbiamo creato il MUG (Milan University Gamers), il primo gruppo studentesco formato e ufficializzato all’interno dell’ambiente universitario che si occupasse di videogiochi e che ne portasse avanti un’idea di prodotto culturale. Formato da persone che amano i videogiochi sia a livello di divertimento sia a livello competitivo, all’interno del MUG si sono create delle squadre di eSports (giochi elettronici competitivi)”.
È in questo ambito che la developer incontra un ambiente per lei fin lì sconosciuto: “Per 24 anni di vita, qualsiasi gruppo di videogiocatori di cui avevo fatto parte, era sempre stato pieno di offese, insulti sessisti, omofobi, razzisti e abilisti. Perché era normale. Perché – mi duole dirlo – molti gruppi di gaming sono abitati per la maggior parte da uomini. Le donne sono accettate solo se rispettano certi requisiti. Devi insultare come fanno loro, giocare ai giochi che loro ritengono i veri giochi, devi essere una vera nerd. Cioè conoscere ogni minimo particolare di una determinata serie di videogiochi. Devi essere perfetta per essere accettata. Spesso mi è capitato, infatti, anche con persone appena conosciute, di essere sottoposta a dei test. ‘Vediamo se ti piacciono davvero i videogiochi’, è la prima cosa che ti domandano se sanno che sei una ragazza”.
Nella tossicità di questi atteggiamenti, Maura Saccà indica però anche una caratteristica interessante. “Si entra in un loop di ricerca di approvazione, di occupazione di spazio, che porta noi donne a essere preparatissime per paura di non essere accettate. Pensiamo di non saperne mai abbastanza, di essere sempre inferiori. Per non sembrare arroganti, non mostriamo mai davvero quanto ne sappiamo”. Da qui non è poi difficile immaginare che dinamiche simili finiscano anche nei colloqui di lavoro: “Una donna per essere presa deve essere strabiliante, sorprendente, perfetta. Un uomo si può anche permettere di essere mediocre”.
Nonostante questo nota che “certa rivoluzione avvenuta nel mondo televisivo e cinematografico, sta avvenendo, anche nell’industria videoludica – molto a rilento ma sta avvenendo). La conoscenza di culture ed esperienze nuove è in crescita nel pubblico”. Secondo Maura Saccà per velocizzare certe tendenze di cambiamento “bisogna parlare e dire davvero le cose come stanno. Far capire che non basta avere una donna nel team per essere inclusivi. E capire che dobbiamo lasciare il microfono alle persone che non hanno avuto modo di raccontare le loro storie perché non saranno più stereotipi, ma condivideranno esperienze di vita vissuta”.
Valentina Tosto
Viene da un percorso simile Valentina Tosto, oggi Technical Game designer di AnotheReality (azienda milanese che sviluppa applicazioni e videogiochi in VR e AR). Anche per lei l’incontro col gaming è iniziato a 6 anni in una famiglia accogliente. “È grazie a mio padre che sono così legata ai videogiochi. I miei genitori mi hanno sempre supportata in questo interesse che è cresciuto fino a diventare, negli anni, un lavoro”.
Agli studi in Informatica per il Management, durante i quali i videogiochi erano ancora solo una passione, è seguito il percorso universitario alla Statale di Milano e la laurea magistrale in Informatica. Sono quelli gli anni della creazione di MUG e del programma radiofonico universitario Plug and Play. “Esperienze formative ed entusiasmanti che mi hanno aiutata a crescere sia a livello personale che lavorativo. In quest’ultimo anno ho aperto un canale Twitch dove parlo di videogiochi. Questo mi ha permesso di uscire dal mio guscio, superare la mia timidezza”.
Tosto non nasconde la difficoltà di fare il salto dai libri al mondo del lavoro. “In Italia sono poche le realtà grandi e il marcato non è vasto. A essere più diffusi sono gli studi indipendenti che difficilmente offrono opportunità lavorative. Spesso sono start-up che partono già con un team completo e decidono di ampliarlo solo quando riescono ad avere successo. Ho avuto la fortuna di trovare velocemente lavoro in un’azienda che sviluppa anche videogiochi. Sono consapevole però che qualora volessi fare esperienza in uno studio più grande e focalizzato nella sola produzione videoludica, dovrei puntare all’estero”.
Dati gli anni di esperienza nel settore, la developer riconosce il persistere di stereotipi. “Recentemente molti team di sviluppo sono stati presi di mira dal videogiocatore medio per aver inserito personaggi femminili non conformi agli standard sociali. Questi comportamenti non fanno ben sperare in un miglioramento. L’unico cambiamento è che l’industria si sta rendendo conto del bisogno di rappresentazione delle minoranze e sta lavorando su questa strada. È diffusa la credenza che i videogiochi siano solo per uomini, vedendo come una creatura mitologica la donna videogiocatrice. Spesso mi sono sentita venerata perché giocatrice o, al contrario, vittima di battute tristi sull’essere brava o no a un videogioco per il mio genere.”
Come intervenire? “Una pratica utile sarebbe l’inserimento nei videogiochi di personaggi appartenenti a minoranze in maniera più naturale possibile. Ciò significa non creare un videogioco basato esclusivamente sul racconto di quella minoranza, ma inserirlo in maniera implicita, come se appunto fosse la normalità. L’inclusione di personaggi eterogenei gioca un punto a favore per l’azienda e per la sua accettazione all’interno del settore. La rappresentazione di personaggi diversi diffonderebbe il messaggio che chiunque può essere il protagonista di una storia, senza essere discriminato”. Un punto di vista che è anche modus operandi del suo lavoro. “È importante che nei giochi che sviluppo siano inseriti personaggi eterogenei, in modo che più giocatori e giocatrici si possano riconoscere nel videogioco in questione. Ad esempio, quando mi occupo di un progetto con la presenza di avatar, punto a far creare corpi e fisionomie il più componibili possibile, in modo da coprire più identità di genere”.
Fortuna Imperatore
Pur avendo anche lei fatto del game developing una professione, Fortuna Imperatore (nota come AlexFox) segue una strada di formazione diversa dalle altre. Laureata in psicologia, con un master in antropologia esistenziale alle spalle, arriva, allo sviluppo più tardi. Dopo studi da autodidatta in game design crea Freud Bones, videogioco pubblicato in maggio su Steam, una delle piattaforme di distribuzione più importanti nel panorama del gaming.
Del suo percorso racconta: “sono partita da una epochè, da una sospensione del dubbio riguardo la creazione di un gioco e sono passata senza preamboli allo sviluppo. I videogiochi mi hanno destabilizzata, formata come essere umano al pari di cinema e letteratura. Ho scoperto Freud al liceo, mi ha stregata e spinta verso la facoltà di Psicologia. Volevo diventare psicoterapeuta. Poi quel sogno si è sgretolato, volevo l’anomalia e sentire di non andarmi a rinchiudere in una etichetta, in un ruolo. Avevo un profilo vago ma spendibile. Eppure un senso di incompiuto non mi abbandonava. Nella crisi, Freud è tornato a illuminarmi la mente. Ho deciso di scrivere una sceneggiatura, di creare un dialogo con lui. Sceneggiatura che è diventata un gioco”.
Secondo la developer per chi si affaccia all’industria “la sfida è con se stessi. Non c’è un impedimento palpabile all’esterno, se non strutturale/economico. Ho creato un gioco auto-finanziandomi, con una campagna Kickstarter per chiedere fondi ai giocatori e investendo i miei risparmi, lavorando in una impresa di pulizie per otto anni. La sfida è creare e rilasciare un prodotto, senza cedere alla procrastinazione, alla pigrizia, al nichilismo. La sfida è tentare di essere estremamente tentacolari, masticare tante discipline, comprendere i social, il marketing, uscire dall’isolamento e condividere progressi e idee col mondo. Non ho avuto esperienze traumatiche; se sei indipendente è difficile che qualcuno possa ostacolarti effettivamente. Non ho avvertito un problema rispetto al mio essere donna, non mi sono mai posta nemmeno il problema e gli altri hanno solo sottolineato questo aspetto per sensazionalizzare la mia creazione”.
Rispetto alla permanenza di certi stereotipi nell’industria, secondo la developer “quelli che persistono sono costrutti demodè che solo una fetta di utenza tende a usare perché si sente minacciata. Non credo esista una diversità tra gamers più di quanto non esista in ogni settore. L’umanità è eterogenea dunque è ovvio che tutti si approccino a tutto. L’industria a mio parere non ha un problema di diversità: una sua parte teme l’invasione di campo dunque si scaglia contro chiunque non sia simile a lei. A livello antropologico è un semplice cambio generazionale. Quando ci sarà un’evoluzione culturale, nessuno noterà più il sesso di uno sviluppatore o il colore della sua pelle”.
In questo quadro per migliorare le cose, Fortuna Imperatore ha una posizione chiara. “L’unico modo è non adoperare più il termine ‘diversità’. Portare la questione del genere, del colore della pelle, dell’orientamento sessuale in un’area di irrilevanza. Il vero cambiamento ci sarà quando sarà tutto irrilevante per tutti. Non c’è nulla che impedisca a una donna di sviluppare un gioco, diventare un’animatrice, una designer o altro. L’importante è sapere che esistono molteplici professioni e passioni, non escludere nulla a prescindere”.
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