Se sei infelice sul lavoro, alza la mano

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Se la conoscenza fosse risolutiva, la quantità di informazioni di cui disponiamo oggi su quanto le persone siano infelici e stressate sul lavoro e sulle conseguenze di questo fatto renderebbero obsoleta la ricerca di ulteriori soluzioni: da Gallup a McKinsey, da Harvard ai principali centri di ricerca, tutte le voci si levano in un solo grande urlo:

il posto di lavoro rende le persone infelici, quelle che possono ne stanno fuggendo.

Raccogliamo e commentiamo dati su stress, mancanza di motivazione, problemi psicologici, assenteismo, calo della produttività: il fenomeno è tracciato al millesimo e, ciononostante, il trend non migliora. Sapere, quindi, non equivale a risolvere. Come tutti i problemi complessi, anche questo fatica a inserirsi in modo pulito nello schema “causa effetto” che ingegneristicamente ci illuderebbe di poter azionare alcune leve per avere alcuni risultati. L’essere umano, è ormai chiaro, non funziona così.

Quindi accade che la leva più semplice, un tempo considerata la più onerosa – quella della retribuzione – sia diventata sempre meno efficace, mentre abbiano guadagnato la scena quello che una volta erano i benefit “di contorno”: dei “nice to have” il cui intento era inizialmente proprio quello di ridurre l’uso della retribuzione, abbassando così il costo di attrarre e trattenere le persone. Si potrebbe quasi dire che la retribuzione sia diventata una commodity: un po’ perché abbiamo imparato a vivere con meno (per esempio facendo a meno di vari status symbol di 20 anni fa o valorizzando maggiormente l’uso del possesso) e un po’ perché è diventato evidente che vogliamo avere già oggi cose che i soldi non possono comprare in modo immediato, come il tempo, la flessibilità e lo stare bene con sé stessi e con gli altri. Si tratta di beni che non si possono acquistare solo avendo più denaro, ma che abbiamo scoperto di poter invece scambiare con il nostro lavoro: più talento, in questi termini, serve ad acquistare maggiore libertà oggi, invece di darci il denaro che, forse, potrebbe in qualche modo garantirla in futuro.

E’ cambiato, insomma, l’orizzonte temporale, e l’aumento dell’attenzione sul momento presente ha modificato i termini della negoziazione tra lavoratore e posto di lavoro, anche perché una maggiore consapevolezza della certezza dell’oggi rispetto a una promessa vaga di un futuro sempre più incerto ha aumentato il peso relativo dell’infelicità presente. Il malessere sotterraneo che sembrava inevitabile e scontato in un’idea di presente sacrificato al futuro è quindi salito in superficie: il modo in cui le persone si sentono oggi conta, e conta sempre di più proprio per le persone stesse. Niente più ipoteca, si potrebbe dire, sul presente a beneficio del futuro: abitiamo il presente e vorremmo che fosse più felice.

Ma non lo è. Al punto che le persone si ammalano di lavoro, e secondo McKinsey (per citarne solo uno dei molti) la salute mentale dei dipendenti è diventata una priorità per quattro HR su cinque. Di salute sul posto di lavoro si è sempre parlato, riferendosi principalmente all’eventualità di incidenti; mai però prima di oggi la percentuale di rischio era stata così alta: i dati indicano che attualmente una persona su quattro (in media) stia male a causa del lavoro. Tradotto nei termini tradizionali con cui si considera la salute, si sta dicendo che un quarto dei dipendenti di un’azienda si ammalerà a causa del lavoro – anche se nella maggior parte dei casi, a differenza i quel che avviene con gli incidenti “fisici”, continuerà a lavorare. Le malattie che circolano sono diverse, come lo sono le cause, ma ce n’è una che risuona in modo simile  nei diversi Paesi e accomuna molti milioni di lavoratori: si chiama “burn out” e, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, è:

“Una sindrome che viene concettualizzata come il risultato di uno stress cronico sul lavoro che non è stato gestito. E’ caratterizzato da tre dimensioni:
– sentimenti di esaurimento o mancanza di energia
– aumento della distanza mentale dal proprio lavoro o sentimenti di negatività o cinismo verso il proprio lavoro
– ridotta efficacia professionale.
Il burn out è un concetto che si riferisce specificamente a fenomeni in ambito lavorativo e non deve essere applicato ad altre aree della vita”.

Perché le persone sperimentano e manifestano sempre più di frequente questo doloroso allontanamento dal proprio ruolo professionale? Secondo le ricerche, il 60% degli elementi predittori di questa patologia ricade nella “tossicità” dei comportamenti sul posto di lavoro. Ecco un’altra parola abbastanza nuova ma purtroppo sempre più familiare in ambito lavorativo: il termine “tossico” si riferisce a qualcosa che “toglie la vita” e viene usato anche come sinonimo di “velenoso”. In un ambiente di lavoro ad alta tossicità – se ne parla come se fosse una composizione chimica, misurabile nell’aria – le persone non si sentono al sicuro, si sentono svalutate e sminuite. E, ovviamente, stanno male e lavorano male. Ma perché succede? Come, quando è successo che il modo in cui ci trattiamo gli uni con gli altri in ufficio abbia iniziato ad essere comunemente tossico, al punto che oggi produciamo check list su “cosa non fare” perché questo non avvenga?

Sono i vecchi comportamenti a non funzionare più oppure siamo cambiati radicalmente noi? Potremmo dire che sono successe entrambe le cose: il mondo ha girato su sé stesso diecimila volte negli ultimi 25 anni ed è cambiato letteralmente tutto, ma a scuola si studia ancora come negli anni ottanta e in ufficio ci si aspetta che si seguano regole che, se non sono le stesse, sono comunque ancorate a quella visione del mondo e da lì si muovono per piccoli scostamenti. Così, una reazione che prima era considerata anomala – stare male mentalmente a causa dell’incapacità ad accettare di lavorare (e di vivere) in un certo modo – è diventata “mainstream” e sta iniziando a riguardare tutti.

Abbondano quindi indicazioni di possibili cure. Dallo psicologo online alla meditazione, gli interventi che le aziende mettono in campo mostrano risultati nell’abbassare i livelli di stress e il conseguente rischio di burn-out. Quel che però manca ancora in modo evidente, come sottolinea anche l’articolo di McKinsey, è la prevenzione. Va bene curarci, ma come evitare proprio di ammalarci di tristezza sul lavoro?

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  • Gaia |

    “a scuola si studia ancora come negli anni ottanta”? Chi ha scritto l’articolo ha mai lavorato in una scuola di oggi?

  • Pasqualino Di Ventura |

    Le dinamiche in ambito lavorativo sono diventate oltremodo tossiche e il valore delle persone si misura con il loro servilismo e la completa disponibilità per pochi spiccioli in più. La dignità è un concetto inesistente nel pratico ma molto utilizzato nelle funzioni. L’attività più ricorrente è quella dello “scarica barile”; tutti provano a imporre agli altri il proprio lavoro, spesso perché non si è in grado di svolgerlo, con mezzucci di ricatti, pressioni emotive, ipotesi di vendetta e la promessa di pochi spiccioli o di eventuale carriera. Uno dei punti è proprio questo e non credo esistano soluzioni efficaci, purtroppo.

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