Quanto durano mediamente i rapporti di lavoro? Quante persone restano occupate presso la stessa azienda per più di 10 anni? Quali sono i vantaggi di una relazione di lunga durata per le imprese e per i dipendenti?
In Italia un rapporto di lavoro dipendente dura in media 12 anni (sia per gli uomini sia per le donne); nessun Paese europeo ci supera, e la media OECD si attesta a 8 anni.
Il primato italiano nella durata dei rapporti di lavoro è confermato anche dai dati Eurostat: l’Italia è terza in classifica per numero di occupati che lavorano alle dipendenze dello stesso datore da più di 10 anni; come noi superano il 50% solo Slovenia e Portogallo, contro il 44% della media europea e contro valori poco al di sopra del 30% di Danimarca e Svezia.
Da cosa dipende questo primato?
Non dipende dall’età di pensionamento, perché l’età effettiva di uscita dal mercato del lavoro (ovvero l’età a cui si lascia l’attività produttiva, che può precedere la data di prima erogazione della pensione) nel nostro Paese, secondo le stime dell’OECD, è sempre stata minore, e non maggiore, rispetto agli altri Stati europe, Ad esempio, per gli individui entrati nel 1980 è di 60,6 anni per gli uomini e 60,1 per le donne contro 64,2 per gli uomini e 62,9 per le donne della media OECD, e per gli individui entrati nel 2020 è 62,3 per gli uomini e 61,3 per le donne contro 63,8 per gli uomini e 62,4 per le donne della media OECD (Pensions at a Glance 2021).
In teoria, una relazione a lungo termine tra datore di lavoro e dipendente comporta numerosi vantaggi per entrambi i contraenti. Quando l’informazione relativa al contesto decisionale è incompleta e asimmetrica (come sempre accade nell’economia moderna), un rapporto di lavoro che perdura nel tempo è la necessaria premessa affinché la struttura degli incentivi e i percorsi di carriera possano rivelare il talento degli agenti e sostenere il loro investimento in capitale umano specifico, aumentandone sia la produttività sia la soddisfazione (Lazear e Gibbs 2014; Lazear e Shaw 2007).
Ma siamo proprio noi i migliori, tra tutti i Paesi europei, da questo punto di vista? Al primo posto, nella struttura degli incentivi, vi è la retribuzione, ovvero un sistema premiale crescente al crescere dell’anzianità di servizio. Se però si calcola l’incremento della retribuzione media oraria dei dipendenti con anzianità di 30 anni o più in percentuale della retribuzione degli individui che sono dipendenti della stessa impresa da meno di un anno, possiamo notare che il nostro Paese è sotto la media europea, e la stessa cosa si osserva considerando la retribuzione lorda annua invece di quella oraria (Eurostat 2018). Non è dunque neppure la retribuzione la variabile più rilevante per spiegare il nostro primato di durata del rapporto di lavoro.
Al secondo posto, nella struttura degli incentivi, si trovano le prospettive di carriera. La letteratura sui mercati del lavoro interni (Doeringer e Piore 1971) evidenzia numerose ragioni per cui gli avanzamenti professionali si sviluppano prevalentemente nell’ambito della stessa organizzazione, e, in realtà, i dati confermano l’esistenza di un legame di lunga durata tra un’azienda e i suoi manager. Nel nostro Paese infatti la percentuale di dirigenti che lavorano per lo stesso datore da più di 10 anni sfiora il 64%, primi in Europa anche in questo caso, con Svezia, Paesi Bassi, Danimarca e Finlandia che si attestano intorno al 40%. Stessa cosa nelle Forze Armate.
Pur senza fare ricorso a modelli teorici, è comprensibile che la carriera militare si sviluppi interamente nell’ambito della stessa istituzione; la percentuale di dipendenti delle Forze Armate che lavorano per lo stesso datore di lavoro da più di 10 anni supera infatti il 90% nel nostro Paese, e siamo sempre primi in Europa; ma perché in Danimarca la loro quota scende sotto il 40% e in Germania si attesta al 56%?
L’invecchiamento della popolazione potrebbe avere un ruolo nella spiegazione di questi dati, e per verificare tale ipotesi una ricerca dell’OECD (2019) calcola le variazioni della durata del rapporto di lavoro nel corso dell’ultimo decennio controllando per i cambiamenti nella composizione della forza lavoro relativamente all’età, al genere e al livello di istruzione; i risultati portano alla conclusione che la durata media si è ridotta per la maggior parte dei Paesi europei, ma non per l’Italia. Quindi neppure la variabile demografica offre una spiegazione convincente della lunga durata del rapporto di lavoro nel nostro Paese.
Aggiungiamo un ultimo dato: una quota non marginale dell’occupazione italiana è costituita da individui che sono datori di lavoro solo di sé stessi, e in questo caso, non avendo dipendenti, non si osservano rapporti di lavoro né di lunga né di breve durata; se andiamo a vedere quanti di questi occupati sono in attività da più di 10 anni troviamo che superano il 60%, e questo valore ci pone, ancora una volta, ai vertici della classifica europea. Solo la Grecia ci batte, mentre in 13 dei 27 Paesi europei la quota scende al di sotto del 50%.
Quest’ultimo dato avvalora l’ipotesi che la lunga durata del rapporto di lavoro osservata nel nostro Paese possa dipendere, più che dai vantaggi rappresentati dalla teoria, o dalla dinamica delle variabili demografiche, da una certa “resistenza al cambiamento” del sistema produttivo che accomuna lavoro autonomo e lavoro subordinato, e che potrebbe rappresentare un ostacolo nei piani di sviluppo del prossimo futuro, limitando la possibilità di reazione alla crisi del nostro Paese e la sua capacità di ripresa, come sostiene l’ultimo Rapporto dell’Istat che valuta la competitività e la solidità strutturale del nostro sistema produttivo (Istat (2021).
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