“Come spesso mi è accaduto nella vita stavo scambiando l’inizio con la fine o la fine con l’inizio, o stavo cercando una fine e un inizio per un tempo che era semplicemente durante”.
Definire un “prima” e un “dopo”. Cercare di identificare le coordinate di quella che era la vita “prima” e quella che è “adesso”: dal 2020 a oggi, i tentativi fatti in questa direzione, sono stati tanti e diversificati. Alcuni decisamente mirabili e argomentati. Altri più timidi e goffi.
Fatica da pandemia, stanchezza generalizzata, consapevolezze nuove, riassestamento degli equilibri, cambi di vita radicali: prima sentimenti personali e piuttosto indecifrabili, poi gesti individuali e decisamente più chiari, oggi scelte collettive che riguardano la vita pubblica: così nascono i fenomeni che allertano sui “prima” e “dopo”. Quegli accadimenti che, da definizione sociologica, sono in grado di incidere sulla struttura della società e indirizzarne il futuro. Lo sono, a tutti gli effetti, le “Grandi dimissioni”: il fenomeno arriva dall’Atlantico e racconta che, come mai prima di adesso, un’ondata di persone sempre più ampia si dimette dal suo posto di lavoro. Sono stati 25 milioni negli ultimi sei mesi del 2021, 4,5 solo a novembre 2021. Con una portata più ridotta, i dati riguardano anche l’Italia: nel secondo trimestre del 2021 il boom è stato dell’85%, mentre nel terzo la media è stata del 26,7%.
Grandi dimissioni o “Tutta la stanchezza del mondo”?
La pandemia è stata la causa? Oppure i tempi per un mutamento del paradigma lavorativo erano già maturi? Le interpretazioni a riguardo sono diverse, più o meno polarizzate su punti di vista differenti, ma accomunate dall’urgenza esplicita di leggere il tempo e trovare delle risposte precise. Cadendo, tuttavia, nell’equivoco di fondo che, in “Tutta la stanchezza del mondo” (Bompiani), Enrica Tesio mette a segno: il tempo è durante. Inutile provare ad afferrarlo a tutti i costi. È nel divenire – racconta Tesio – che il mondo accade inesorabile: “Ciò che resta uguale è lei, la stanchezza. Mi sono chiesta di cosa sia fatta per consumarmi, consumarmi senza esaurirmi mai del tutto. Non è idrosolubile, non si scioglie nella doccia, non evapora al sole dell’estate. Cosa c’è dentro? Olio di palma? Adamantio? È una parola vuota, un intercalare? Oppure è piena di idiosincrasie, ossessioni, del mio peggio e del mio meglio, del peggio e del meglio di questo periodo storico? È una condizione condivisa?”. In un diario privato di fatiche collettive, Tesio – copywriter, blogger e autrice – ne racconta dodici, “come quelle di Ercole”.
Dalla mitologia greca, alla quotidianità: nell’elenco stilato dall’autrice non c’è solo la fatica delle madri, ma anche quella da (abuso di) social; la stanchezza della burocrazia, quella del diventare adulti e persino la stanchezza della bellezza. Qui, nella vita di tutti i giorni occupata a procedere, le “Grandi dimissioni” svelano inaspettatamente il loro perché: la costante tensione verso la migliore versione dì sé riguarda tutti e, dimostra Tesio, ha stancato tutti. Il racconto parte proprio dall’11 febbraio del 2013 quando, “nel cuore di una serata di ordinario delirio tra figli piccoli, lavoro arretrato e incombenze domestiche, dalla tv arriva una notizia stupefacente: il papa si è dimesso. Non è malato, non è in crisi spirituale, è afflitto dalla patologia del secolo, la stanchezza”: da quel momento, le parole di Tesio mettono insieme quel sentirsi “parte di qualcosa di grande e insieme sola in modo assoluto”.
Anche il fenomeno più trasversale ha le sue radici nel personale sentire: come è emerso dalla ricerca dalla ricerca “Employer brand research“ dell’agenzia internazionale per il lavoro Randstad, carriera e retribuzione hanno ancora un ruolo centrale nella scelte professionali. Ma non le guidano. A farlo, è il work life balance, l’equilibrio tra lavoro e vita privata. L’opposto della scena ben identificabile che Tesio disegna nero su bianco: “Così si va a dormire con il computer, per finire, chiudere, rispondere a email, ma anche per guardare un film, una serie, tanto si possono fare due cose insieme. Io non sono più in grado di guardare un film interamente senza spippolare su Facebook, vedere una notifica su Instagram, mandare un messaggio, cercare online lo spoiler del programma che sto guardando ma che no, non mi sta coinvolgendo troppo. L’intrattenimento ha preso la china della semplice e vuota distrazione. Concentrazione, dicevo, ci vuole concentrazione anche per riposare”. Il sistema valoriale che ha guidato le scelte lavorative di baby boomers e generazione X – “sii l’imprenditore di te stesso, sii capo ma soprattutto schiavo, pensando però di avere piena autorità” – lascia spazio a un paradigma nuovo che mette al primo posto la cura della qualità della vita: l’aspetto economico subordinato alla salute psico-fisica. Il cambio di piano, decisivo e importante, consegna nuove interpretazioni a vecchie convinzioni: “Io sono cresciuta nell’epoca del ‘fai della tua passione il tuo lavoro e non lavorerai’. La passione è per sua natura volatile, avvampa e si consuma, è passeggera e, soprattutto, se incanalata nell’abitudine, non può che sopirsi e scomparire. Fai della passione il tuo lavoro e presto non avrai più una passione, questa è la versione più realistica della massima di Confucio”.
Yolo, acronimo di “you only live once” (si vive una volta sola) è il nuovo approccio con cui chi lavora sceglie di posizionarsi sul mercato: si lavora per vivere, non si vive per lavorare. Lo smart working ha riscritto le regole, la richiesta di ascolto e flessibilità non è più rimandabile: fondamenta di una piramide nuova, meno gerarchica e più orizzontale, in cui la stanchezza non è il parametro “socialmente accettato o l’effetto collaterale di una vita degna di dirsi tale”, ma una dimensione connessa in modo sinergico e sano alla felicità e al riposo: “Delle grandi felicità – racconta Tesio – io ricordo l’epilogo, esausta: le ore piccole fatte a dirsi ‘che fortuna esserci incontrati’ con un nuovo amore, le sere in ospedale dopo aver partorito i miei tre figli sani, il momento in cui passo in rassegna una giornata memorabile magari per un successo ottenuto e poi spengo la luce o addirittura la luce resta accesa perché non faccio in tempo ad arrivare all’interruttore prima di crollare”. Questo chiedono i numeri: il diritto di essere felici, dove per felicità non s’intende “non avere problemi o avere tutto quello che si desidera” ma “un fare simile a quello dell’albero che fa esprimendo qualcosa della propria natura, della propria essenza: fa portando a compimento se stesso”. Così, il fare legato alla felicità “chiude un circolo virtuoso attraverso la stanchezza lieta e mai tossica”.
“Mollo tutto e vado a vivere in campagna”: molto radical, poco chic
Mentre una serie di sfide incombono sul mercato del lavoro, le storie personali fanno la differenza e aprono la strada: Filippo Baracchi e Cecilia Irene Massaggia raccontano la loro in “Maledetta Zappa – Due millennial prestati all’agricoltura” (Altreconomia). Millennial italiani, figli del Nord-Est, laureati e già sperimentati nelle professioni del mondo del cinema, scelgono con cognizione di causa e affrontano un nuovo progetto di vita: diventare agricoltori, viticoltori per la precisione, in una località alle porte di Venezia e ai bordi dell’autostrada A4. “Noi siamo una coppia di cosiddetti creativi che ha scelto di imparare a fare i contadini. Non nasciamo agricoltori, il nostro orizzonte da sempre è stato quello culturale. Ma c’è qualcosa che ci caratterizza più profondamente: siamo cresciuti nel periodo delle crisi e apparteniamo alla generazione dei millennial – i nati 1981 e il 1996 – generazione fluida e ampia, che condivide soltanto la precarietà come elemento del proprio tempo”.
Poco chic, molto radical: quello di Baracchi e Massaggia è una storia che porta – tra l’orto e la vigna – la cultura, la creatività e la capacità di risoluzione dei problemi. Competenze che prescindono dall’ambito creativo e diventano oggi indispensabili per preservare il capitale umano in tutti i settori d’attività: “Non capita a tutti di trovarsi, nel pieno di un cambiamento epocale, a progettare il proprio futuro e quello di quasi quattro ettari di terra. E sembra uno scherzo del destino che l’indirizzo di quel luogo sia una via che si chiama proprio ‘crede’, parola che riecheggia la terza persona del verbo credere; un’esclamazione profetica in tempi bui e ostili”.
La scelta di Baracchi e Massaggia parte nel 2016, quando decidono di dar vita – su un terreno di proprietà familiare – all’azienda agricola Le Crede, ai bordi dell’autostrada A4: “Il nostro approccio alla vita e al lavoro in campagna è stato innanzitutto far fronte all’onda d’urto causata da un cambiamento a lungo evocato e infine concretizzatosi: l’allargamento dell’autostrada A4 Torino-Trieste”.
“Maledetta Zappa” non è la “narrazione di una qualche campagna bucolica”, ma la cronaca precisa di una scelta non convenzionale, profondamente ecologista e molto concreta, da parte di due giovani di meno di 40 anni, inserita nella complessità del contesto contemporaneo: una chiave di lettura che, se da un lato interpreta le “Grandi dimissioni” nel comune sentire generazionale – “abbiamo imparato a preparare almeno tre versioni del curriculum vitae, ognuna con strategiche omissioni, cercando di offrire di noi un profilo il più possibile in linea con la domanda. Ci siamo abituati a pensare che quando trovi lavoro, è meglio se te lo tieni perché se vuoi cambiare, non è possibile ipotizzare il tempo che ti occorrerà per farlo” – dall’altro ne fa emergere un punto di vista inedito, smontando i luoghi comuni legati alla vita lontana dalla città: “Quanti nostri coetanei desidererebbero condurre una vita come quella che facciamo noi? Forse molti, in astratto: ma poi sarebbero davvero disposti a sacrificarsi in concreto? A fare delle rinunce? A accettare prassi di vita nuove per loro e magari per i loro figli?”.
A Le Crede la casa è circondata dalla natura e l’osservazione diventa in un certo modo la priorità del vivere: la stessa capace di creare un ecosistema circolare, riflettendo sul senso del lavoro oggi. “Lavorare nei campi è un motto che potrebbe essere adottato, per vivere in modo più pieno, attento ed essere vigili sulla realtà e sull’ambiente che circonda l’uomo. Ma lavorare etimologicamente significa faticare. Non c’è nulla di male a identificare il lavoro con lo sforzo fisico, così come non è sbagliato considerare lavoro l’impegno intellettuale. Ma purtroppo oggi in alcuni contesti, come quello agricolo di alcune zone rurali, il lavoro è ancora nei fatti una sorta di schiavitù per i soggetti più deboli; e in generale si percepisce un divario ancora troppo ampio tra l’aspetto creativo e intellettuale e quello pratico e operativo, almeno in Italia. Questo ha portato a concepire il lavoro in modo distorto e ci ha allontanato da quello che dovrebbe essere il suo vero significato e il risultato più importante: la dignità di chi lo svolge e la sua qualità, a prescindere da quale sia”.
Si ha ancora paura della zappa? Si continua a temere l’attrezzo dell’agricoltura di una volta, oggi diventato cimelio del tempo o oggetto di hobbistica? Questo, alla fine della storia, si chiede chi scrive e chi legge: “La zappa, strumento accurato, essenziale e vitale. Può essere sostituito dal badile, ma ha una funzione diversa, più precisa. Serve a smuovere i pezzi di terra e rendere fine la sua grana prima della semina. Così vengono abbattute le infestanti e trasferito ossigeno al terreno”. Ed è così, viene facile pensare, che bisognerebbe fare: ridare ossigeno, smuovere le zolle. E poi, raccogliere il raccolto di una semina nuova.
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Titolo: “Tutta la stanchezza del mondo”
Autrice: Enrica Tesio
Editore: Bompiani
Prezzo: € 17,00
Titolo: “Maledetta zappa. Due millennial prestati all’agricoltura”
Autori: Filippo Baracchi, Cecilia Irene Massaggia
Illustratore: Squaz
Editore: Altreconomia
Prezzo: € 15,00
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