Lo stato di emergenza è nella nostra testa

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Dopo un’attesa durata due anni e due mesi, il 31 marzo scorso è stato ufficialmente revocato lo stato di emergenza, cominciato il 31 gennaio 2020. Sebbene siano state varate nuove e più leggere disposizioni che ci accompagneranno verso l’abbandono di mascherine e green pass, poco – o nulla – è davvero cambiato. Soprattutto nella testa delle persone.

L’attesa è stata lunga e sofferta e più volte si è anelato il momento in cui sarebbe stato possibile “tornare alla normalità”. Ora che sembra essere giunto, vedo e ascolto testimonianze di frustrazione e sconforto. Le ragioni sono tre. Il primo, e più evidente, è che non c’è nessun ritorno: tutto è cambiato per sempre. Il Covid ha messo un punto a capo, dopo il quale si è voltata pagina. Un po’ come l’11 settembre o la caduta del muro di Berlino.

La seconda ragione risiede nel fatto che la normalità muta. Cos’è infatti la normalità se non ogni singolo giorno a prescindere dalle sue caratteristiche? Così come il 2019 non era normale più di quanto lo sia stato il 1956 o il 1982, lo stesso si può dire del 2020 o del 2021. A cambiare è il periodo storico-sociale e tutto ciò che ne consegue, ma un anno non è più normale di un altro. Come si valuta, infatti, la normalità?

La terza motivazione è che il “ritorno alla normalità” è spesso percepito come un momento. Che però non esiste. Le cose non “ritornano” dall’oggi al domani – a dire il vero, non ritornano mai – ma si trasformano lentamente in un processo in divenire. Nello scorrere del tempo e nell’evoluzione della storia, non esiste un passaggio automatico da on a off o viceversa.

Nonostante ciò, l’aspettativa nei confronti di questo aprile è stata alta: fantasie e speranze hanno spesso investito, in maniera per lo più inconsapevole, la fine di marzo, nell’attesa di un miglioramento nella propria vita. Eppure, si è assistito anche a una reazione opposta, che prende forma nel non crederci più, nella rassegnazione e nella rinuncia a capire. Tra questi due estremi, troviamo tutte le reazioni che stanno sperimentando in questo periodo le persone. Che siano ansia, paura, sconforto, frustrazione, rabbia, esaurimento, apatia. Tutti vissuti leciti e normali perché ognuno percepisce e interpreta in maniera differente ciò che succede, rispondendo di conseguenza.

Le reazioni che maggiormente osservo possono però essere ricondotte proprio ai due estremi: da una parte la delusione, dall’altra il languire. Termini che, non a caso, abbiamo imparato a conoscere proprio durante questi ultimi due anni di pandemia. La delusione è figlia di aspettative alte nei confronti di un cambiamento che non sta avvenendo. Si pensava che aprile avrebbe portato con sé un vento di cambiamento e che avrebbe così avuto la forma di un qualsiasi mese del 2019. Si attendeva una trasformazione, un ritorno, un miglioramento. Il più delle volte in maniera inconsapevole. In questo caso siamo infatti di fronte a quelle che la psicoanalisi chiama fantasie inconsce, ossia rappresentazioni mentali, interne e soggettive che, sebbene siano connesse con la realtà esterna, se ne discostano. Anche di molto.

Il languire è invece tipico di chi le aspettative le ha abbandonate o perse di fronte a precedenti delusioni. La speranza ha lasciato il posto alla rassegnazione, finendo per trascinare nella rinuncia. Tutti vissuti tipici di chi ha ormai la convinzione che le cose non cambieranno e che se anche lo faranno, preferisce non investire troppe emozioni nell’attesa. Le scottature precedenti bruciano ancora e l’apatia è spesso la scelta più conveniente per preservare il proprio benessere psicologico.

A prescindere da quale sia la reazione che ci si ritrova a sperimentare, è evidente come la fine dello stato di emergenza dichiarata dal Governo non corrisponda (sempre) alla realtà interna di molte persone. Lo stato di emergenza è (anche) nella nostra testa. Siamo noi a decidere come percepire gli eventi e che forma dare a ciò che succede, anche se spesso crediamo di essere solo passivi osservatori del fiume che scorre. A prescindere da una data sul calendario, abbiamo infatti la possibilità di lavorare sull’interpretazione che facciamo delle cose e decidere quando uscire dal (nostro) stato di emergenza.

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