Violenza sulle donne: l’affido dei figli è strumento di vittimizzazione secondaria

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Battaglie con l’ex partner violento per l’affido dei figli, scarsa formazione delle forze dell’ordine o degli assistenti sociali, problematicità delle consulenze tecniche d’ufficio, tempi lunghi dei processi italiani, buone leggi sottoutilizzate, scarsa preparazione dei magistrati. In tutti questi casi, che si possono collocare nell’ambito dell’ampio spettro della vittimizzazione secondaria, la donna vittima di violenza ha bisogno di sostegno, apporto, aiuto, di un ponte verso le istituzioni, per restituirle la fiducia necessaria. Spesso, durante le battaglie giudiziarie che durano anni, la donna si sente sola. Per questo è importante il ruolo delle operatrici dei centri antiviolenza. Queste strutture danno appoggio e aiutano le donne a non soccombere quando la vittimizzazione secondaria, ad opera delle decisioni sull’affido oppure delle sentenze della magistratura o dell’incompetenza delle forze dell’ordine, diventa lunga, difficile da sostenere.

A Trieste il caso di una donna bollata come alienante, vince in appello dopo anni

È quanto emerge, in un viaggio da Nord a Sud, dalla periferia alle Isole al centro dell’Italia, tra i centri antiviolenza. Un viaggio attraverso le voci e le testimonianze delle operatrici che si confrontano, ogni giorno, con i casi di vittimizzazione secondaria. Partiamo dal Nord-Est dell’Italia, a Trieste. «Abbiamo avuto nel 2018 – racconta Maria Grazia Apollonio, psicologa e consulente del centro Goap – un caso eclatante, che ancora non ha avuto conclusione. La protagonista è una signora che ha denunciato il marito per maltrattamenti. I figli hanno sempre confermato il racconto della madre, e, quindi, il tribunale ha prescritto incontri in un contesto protetto. I ragazzini, però, si sono rifiutati di vedere il padre, ne avevano paura. L’uomo, quindi, ha fatto ricorso al tribunale civile e chiesto una consulenza tecnica d’ufficio. In quel momento il caso al tribunale penale, che poi verrà archiviato, era ancora aperto.  La consulente, pur scrivendo nella relazione che non poteva escludere il collegamento tra il rifiuto dei ragazzi e una violenza diretta o indiretta, cioè una violenza assistita, ha giudicato il comportamento della madre condizionante e alienante. E chiesto che i figli venissero allontanati». In seguito, il giudice d’appello ha ribaltato la decisione, ma resta la sofferenza che la donna ha dovuto affrontare e l’impatto sui figli dell’allontanamento forzoso dalla genitrice.

Veltri (D.iRe): «Bigenitorialità applicata in maniera acritica»

Sulla necessità di formazione per superare la vittimizzazione secondaria pone l’accento Antonella Veltri, presidente di D.iRe-Donne in rete contro la violenza che raccoglie sotto lo stesso ombrello più di 80 centri: «non c’è ancora un sufficiente livello di formazione sul fenomeno della violenza maschile: magistratura, forze dell’ordine, consulenti tecnici d’ufficio continuano ad agire con pregiudizi e stereotipi sessisti e misogini. La violenza viene raramente riconosciuta e spesso, al contrario, viene ‘derubricata’ a conflitto. Ancora oggi, le donne non vengono credute e viene per questo disattesa l’applicazione dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul sulla custodia dei figli. Il perseguimento ideologico della bigenitorialità non fa prendere in considerazione la violenza subita dalla madre, come, invece, è previsto proprio dalla Convenzione. Infatti, dopo l’approvazione della legge 154 del 2006 sull’affido condiviso, il principio della bigenitorialità viene affermato in maniera acritica e nei tribunali si premia la “friendly parental provision” senza individuare i casi di violenza anche in presenza di procedimenti penali paralleli».

Lanzoni (Pangea): «nelle Ctu le donne non vanno ascoltate assieme ai partner»

Dal Nord al Centro d’Italia: i casi di vittimizzazione secondaria non sono dissimili. Cambiano ambientazione, contesto sociale, modus vivendi, ma lo strumento di ricatto, almeno nelle testimonianze delle operatrici, usato per  rendere ancora vittima la donna, sono soprattutto i figli.  La signora D., ad esempio, ha contattato lo Sportello antiviolenza di Fondazione Pangea chiedendo aiuto, denunciando di essere stata vittima, assieme ai figli, di violenza verbale, psicologica ed economica da parte del marito. Dopo la denuncia, il tribunale per i minorenni ha, tuttavia, stabilito che i figli potessero continuare a vedere il padre, nonostante i bambini si rifiutassero categoricamente. Il giudice ha nominato allora un consulente tecnico di ufficio e la signora, nella relazione, è stata  definita “oppositiva”, con modalità “separativa” nel rapporto padre-figli. Le sue angosce e le sue paure non sono state prese in considerazione, i figli non sono stati ascoltati in tribunale, non è stato dato peso ai loro sentimenti. Alla luce di questa situazione, la donna è stata costretta ad avallare gli incontri. Fondazione Pangea  ha allora chiesto l’emissione di un provvedimento urgente e immediato a tutela del nucleo madre-minore, è stata invalidata la Ctu e ne è stata nominata una nuova. Gli incontri protetti sono stati sospesi.

Ammerata (Lucha y Siesta): «La vittimizzazione è ormai cristallizzata»

Nella Capitale una situazione simile al resto di Italia. Lo racconta Simona Ammerata, responsabile del centro antiviolenza di Via Titano, nel quartiere di Montesacro, gestito dall’associazione Lucha y Siesta. «Le prassi di vittimizzazione secondaria – dice l’esperta – sono ormai cristallizzate. Ogni volta che una donna denuncia una violenza, soprattutto se si tratta di maltrattamento intra-familiare, il caso al tribunale dei minorenni è trattato mettendo sullo stesso piano colpevole e vittima». Tutto ciò comporta che quasi mai si dispongano misure cautelare di protezione della donna e dei minori. «La vittimizzazione secondaria – aggiunge Ammerata – si verifica non solo perché non si predispongono le misure cautelari, ma anche perché la vita della donna finisce sotto la lente d’ingrandimento, arrivando a sottrarle la responsabilità genitoriale che viene talvolta sospesa o limitata o predisponendo accertamenti che finiscono per collocare il minore all’interno delle strutture o delle case famiglie. Abbiamo verificato che la condizione di violenza intrafamiliare e maltrattamento produce danni importanti dal punto di vista psicofisico sulla donna, ma questo diventa ancora più grave se la violenza, come nei casi di vittimizzazione secondaria, diventa violenza istituzionale. Una violenza più pervasiva, autoritaria, che avviene su più campi e mette sotto giudizio la donna per ogni cosa». Nelle Ctu, spiega Ammerata raccontando l’esperienza dei centri, si riscontra una discrepanza nell’osservazione dei comportamenti, densa di stereotipi.  Facciamo un esempio: se una bambina esce in disordine, con vestitino macchiato, ed è in compagnia del padre, non ci si fa caso.  Se in questa identica situazione viene coinvolta madre, tutto ciò viene reputato una mancanza di cura nei confronti della minore.

Palladino (Cooperativa E.v.a.):  «L’esperienza nei tribunali è peggiorata»      

Andiamo a Sud, nel territorio campano. Lella Palladino, già presidente della rete D.iRe, lavora alla Cooperativa E.v.a. da oltre 20 anni. Nella sua lunga esperienza non scorge miglioramenti, anzi qualche peggioramento rispetto ad alcuni anni fa. «Per la vittimizzazione secondaria – racconta – c’è stato un cambiamento in negativo: dopo la Convenzione di Istanbul e la messa a punto del nostro impianto normativo contro la violenza, c’è stata una reazione culturale; il ddl Pillon rappresenta, ad esempio, un tentativo di rivalsa della cultura patriarcale, di ingerirsi nella libertà delle donne che desiderano uscire dalle reazioni violente. La nostra esperienza nei tribunali è, quindi, peggiorata; 20 anni fa, 15 anni fa, le nostre avvocate facevano un po’ meno fatica a ottenere l’affidamento esclusivo dei figli alle mamme. Adesso è la parte più complicata dei percorsi di uscita dalla violenza vista l’abitudine dei magistrati a chiedere le Ctu,  la trasformazione del procedimento di separazione e divorzio, per cui interviene il tribunale ordinario senza specializzazione. Non c’è nei tribunali la capacità di leggere la violenza. E questa difficoltà la registriamo, oggettivamente, in tanti casi».

Le Onde di Palermo: «Spesso le donne devono provare la violenza subita»

Anche in Sicilia gli stereotipi, e la conseguente vittimizzazione delle donne, sono duri a morire. Spiega Mariagrazia Patronaggio, presidente dell’associazione Le Onde di Palermo: «Le donne che si rivolgono al nostro centro spesso raccontano all’operatrice di trovarsi nella scomodissima posizione di dovere provare la violenza subita, su sé stesse e le proprie figlie e figli, davanti ad assistenti sociali, operatori delle forze dell’ordine o giudici. Talvolta le donne vengono colpevolizzate anche rispetto alla volontà espressa dai figli o dalle figlie minori di non volere incontrare il padre perché ne hanno timore e non vogliono vederlo, anche quando sono ospiti nella casa rifugio dove si sentono al sicuro». Di fronte a un tale contesto, sottolinea la presidente del Centro antiviolenza, occorre considerare che la base  della violenza maschile sulle donne è culturale ed è intrisa di stereotipi che ognuna/o porta dentro di sé e che incidono fortemente sulle decisioni e sull’operato di tutte e tutti coloro che devono intervenire in un percorso di uscita dalla violenza. A fronte di decisioni dei tribunali che ancora citano la “patria potestà” e a sentenze dense di stereotipi, concludono alcune rappresentanti dei centri, è infine «importante assicurare il lavoro alle donne, la loro indipendenza economica. Serve un impegno forte di tutto il sistema attraverso la scuola, i libri di testo, ancora pieni di stereotipi, i formatori».

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Questo brano è tratto dall’ebook #hodetto no. Quando la donna è vittima due volte, scaricabile gratuitamente dal sito del Sole 24 Ore.

L’ebook è stato realizzato nell’ambito del progetto Never again, che ha come obiettivo quello di contrastare e combattere la vittimizzazione secondaria delle donne colpite dalla violenza.

NEVER AGAIN  è un progetto co-finanziato dal Programma Diritti, Uguaglianza e Cittadinanza dell’Unione europea (2014-2020), GA n. 101005539. I contenuti di questo articolo sono di esclusiva responsabilità degli Autori e non riflettono il punto di vista della Commissione europea.

  • Massimo Mura |

    Ma pensa te: spesso le donne devono provare la violenza subita. Che scandalo: ora, chi denuncia un reato, deve portare le prove. Ma dove andremo a finire? Ma voi scherzate vero?

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