Una vera e propria rivoluzione copernicana nell’ambito del rapporto di lavoro. Così andrebbe definito il lavoro agile. Il lavoratore subordinato, in questo nuovo paradigma, non è più obbligato a mettere solo a disposizione le proprie energie, ma è chiamato a completare fasi e cicli del processo aziendale, raggiungendo specifici obiettivi. Purché tali obiettivi vengano conseguiti, tempi e luoghi di lavoro possono essere gestiti autonomamente dal lavoratore (con certi limiti, ovviamente). Il tempo speso dal lavoratore per svolgere i propri compiti, in altre parole, cessa di essere l’unico parametro per valutare il corretto adempimento del contratto di lavoro.
Si tratta, è evidente, di una drastica riduzione del tradizionale divario tra lavoro subordinato e lavoro autonomo. Ma è davvero pronto il nostro sistema normativo ad affrontare questa nuova cultura del risultato?
La partecipazione dei lavoratori ai risultati di impresa, è importante ricordarlo, è auspicata persino dalla Costituzione, il cui “dimenticato” art. 46 specifica come la Repubblica riconosca
“il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla leggi, alla gestione delle aziende”.
I padri costituenti immaginavano, in buona sostanza, un modello di relazioni industriali in cui i lavoratori avrebbero potuto partecipare non solo alle scelte imprenditoriali, ma persino agli utili d’impresa (cioè ai risultati aziendali).
Si tratta di un progetto drasticamente fallito a causa della tendenza delle parti sociali a preferire un modello conflittuale delle relazioni industriali, in cui i sindacati dei lavoratori e quelli delle imprese perseguono interessi contrapposti ritenuti inconciliabili. Al netto di alcune imprese virtuose che avevano tentato la strada del modello partecipativo, con sindacati e lavoratori coinvolti nelle scelte impreditoriali (ricordo Zanussi, poi confluita in Electrolux, ed Olivetti), l’idea di avere datori di lavoro e lavoratori dallo stesso lato del tavolo è rimasta un’utopia.
Non è stato così in Germania, dove il fenomeno della codeterminazione ha consentito (e consente tuttora) ai lavoratori di avere loro rappresentanti all’interno dei consigli di sorveglianza delle grandi imprese. Un grande successo del modello partecipativo lo si è avuto, del pari, negli Stati Uniti, in cui si sono diffusi sistemi di azionariato per i dipendenti (è noto il caso di United Airlines, in cui i dipendenti riuscirono, con le loro azioni, a nominare ben 3 consiglieri di amministrazione nei primi anni 2000).
Ebbene, oggi, con il diffondersi dello smart working, sembra che i tempi siano maturi per una nuova riflessione sul tema partecipativo e, più in generale, per una rivisitazione della teoria classica sul rischio economico d’impresa (secondo cui il rischio di impresa verte solo ed esclusivamente sull’imprenditore). Se le aziende chiedono un maggior coinvolgimento ai target di business dei propri smart worker, questi ultimi rivendicano la definizione di premi ben definiti in caso di raggiungimento degli obiettivi assegnati (chiedendo altresì di partecipare alla loro definizione).
Contemperare queste due esigenze potrebbe consentire al mercato del lavoro, in effetti, una nuova competitività, dando spazio (finalmente) ad un meccanismo virtuoso di aumento del salario medio (con la diffusione di schemi, magari fiscalmente incentivati, di retribuzione variabile legata alla performance).
Perché gli imprenditori possano accettare di investire su aumenti “virtuosi” del salario e su un maggiore coinvolgimento dei lavoratori sulla definizione dei target, occorrerebbe però che venisse loro data anche la possibilità di contestare lo scarso rendimento dei propri collaboratori. Il che, in Italia, è tutt’altro che scontato. Ed infatti, il nostro è uno dei Paesi in cui è maggiormente difficile contestare ad un lavoratore dipendente il mancato raggiungimento di obiettivi, in quanto i giudici richiedono che la scarsa performance, per poter essere imputata al lavoratore (a tutti i fini), debba perdurare nel tempo ed essere provata con dati certi, tali da dimostrare un effettivo scostamento del low performer dalla “media” dei risultati ottenuti dagli altri colleghi addetti alla medesima mansione. Ebbene, si tratta di un prova che, il più delle volte, diventa “diabolica”, per l’impossibilità di individuare criteri oggettivi di “quantificazione” del rendimento e omogenei criteri di comparazione.
Questi limiti all’utilizzo della performance per la valutazione della qualità di un dipendente, forse, rappresentano uno dei fattori che motivano la diffusa (ma spesso celata) diffidenza delle imprese a puntare sullo smart working. Se, quindi, il sistema economico intende inserire la performance al centro del rapporto di lavoro (per incentivare i lavoratori che si assumono la responsabilità del rischio di impresa), andrebbe contemporamente forse auspicata una rimeditazione dei principi giurisprudenziali sullo scarso rendimento.
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