Perché è più facile lavorare se il tuo capo ti chiede “come stai?”

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Per quanto sia vitale per la specie umana condividere le proprie emozioni con altri, al punto che abbiamo neuroni dedicati proprio a questa funzione – i neuroni specchio, che riflettono le emozioni degli altri – ci siamo comunque educati al farlo il meno possibile sul lavoro. Un insieme di regole non dette fa sì che nel luogo e nel ruolo in cui passiamo la maggior parte del nostro tempo abbiamo instaurato un regime di relazioni fredde, o comunque contenute, limitate a emozioni “socialmente accettabili” nel contesto lavorativo. Ovvio che non ci riusciamo, non ci siamo mai riusciti. Siamo, come ha detto efficacemente la neuroscienziata Jill Bolte Taylor, “esseri senzienti che pensano”: i sentimenti ci raggiungono in modo più veloce dei pensieri e li condizionano. Sentiamo, insomma, prima di pensare.

Quindi le emozioni trattenute ci sono comunque, corrono come fili elettrici tra noi e gli altri e mandano continui messaggi: di disponibilità, di paura, di fiducia, di amore. E’ così innanzitutto per un tema di sopravvivenza: il nostro antico cervello ha imparato nel corso di centinaia di migliaia di anni a verificare lo stato d’animo di chi ci circonda prima di poter fare qualunque altra cosa. Dobbiamo sapere se siamo al sicuro, se quindi chi abbiamo davanti non rappresenta una minaccia, ma anche se siamo al sicuro perché qualcuno si prenderà cura di noi, altra necessità fondamentale alla sopravvivenza della nostra fragile specie. Questo costante controllo del territorio non è consapevole: avviene in automatico attraverso segnali invisibili ed è un radar potente di emozioni in entrata e in uscita. Poi, siamo anche degli esseri sofisticati. Grazie al linguaggio sappiamo dare un nome alle cose e quindi conoscerle molto meglio, frequentarle, spiegarcele, volgerle in sfumature. Siamo quindi un calderone di emozioni: è questo a renderci unici e così capaci di trasformarci nel cambiamento e di immaginare mondi migliori. Ed è questo a renderci anche fragili.

L’emozione prevalente di questo inizio d’anno è la tristezza: un malessere diffuso per un inizio che non ha mantenuto nessuna promessa. Siamo immersi nell’ansia di un periodo troppo lungo di incertezza, siamo assediati da una malattia troppo nuova per esserci familiare, siamo andati oltre la speranza che questo sia l’ultimo inverno del covid: non sappiamo più cosa verrà dopo. Non c’è stato d’animo peggiore per chi, come gli esseri umani, ha bisogno di sapere per potersi sentire al sicuro. Come ne stiamo parlando sul lavoro?

Mentre si discute ancora dell’opportunità di finanziare il supporto psicologico per i ragazzi e gli adulti che hanno avuto il coraggio di alzare la mano per chiedere aiuto, in che modo abbiamo consentito alle nostre abitudini lavorative di cambiare per fare fronte alla pandemia? Abbiamo dato una sostanza al concetto di smart working e con efficacia abbiamo trasferito online la presenza… e poi? Lavorare in pandemia non vuol dire solo darsi degli strumenti pratici, vuol dire anche cambiare le relazioni. Oggi è più evidente che mai: la rottura dei confini spaziali tra vita e lavoro non può riguardare solo la nostra razionalità, devono entrarci per forza anche le emozioni.

Una recente ricerca della Harvard Business School lo dice chiaramente:

C’è un gap di aspettative tra manager e dipendenti. I manager considerano il dare un supporto emotivo come un gesto “gentile” che prescinde dal loro ruolo manageriale, i dipendenti invece lo considerano parte integrante del lavoro di un manager.

Alla comprensione e gestione delle emozioni è preposto un intero set di competenze, le cosiddette “competenze soft”, in particolare quelle dell’intelligenza emotiva. Senza esserci detti in modo ufficiale che le emozioni sono quindi consentite, se non benvenute, in orario d’ufficio, abbiamo però sdoganato l’idea che la capacità di gestirle sia un elemento di forza, soprattutto se si vogliono coordinare delle persone. Passando per le competenze si può quindi abbassare l’ansia che il cosiddetto “carico emotivo” che ogni persona porta con sé si riveli in realtà ingestibile, soprattutto in condizioni come quelle odierne. Ma la ricerca di Harvard fa un passo ulteriore nella direzione di un “Emotional Working” che apra realmente le porte a nuove abitudini, e lo fa rassicurando i manager che:

1) qualunque tipo di interessamento verso l’emozione che si intravede (neuroni specchio!) nel proprio collaboratore, soprattutto se si tratta di un’emozione spiacevole, ha l’effetto di produrre un aumento di fiducia;

2) questo è vero anche se e quando l’interessamento “fallisce”: se per esempio ad esso non segue l’attesa dose di attenzione o se dimostra di aver rilevato l’emozione sbagliata. Le persone preferiscono essere viste “male” al non essere viste affatto.

3) La fiducia nella relazione cresce perché, a prescindere dall’efficacia dell’intervento del manager, il collaboratore percepisce il costo che quel gesto ha per lui/lei e lo apprezza in quanto tale: il manager ha emesso insomma un Segnale Costoso (Costly Signaling) attraverso un’attività che non ha un beneficio immediato per lui, o che è addirittura “rischiosa”, come aprire conversazioni nuove con un collega apparentemente triste o affaticato.

Non solo perché le riunioni online mancano di tre quarti degli elementi che compongono la nostra capacità di comunicare e ci hanno tolto gli strati di improvvisazione che arricchivano le nostre relazioni, ma soprattutto perché mai come oggi è vitale che ci prendiamo cura gli uni degli altri, sempre e ovunque: potremmo aprirci alla possibilità che questo periodo di trasformazione del mondo del lavoro non riguardi solo l’organizzazione del tempo e degli strumenti, ma anche un’apertura radicale e coraggiosa verso relazioni che considerino il bisogno di essere visto interamente che ognuno di noi ha per poter “stare bene”.

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  • Fabrizio |

    A volte chiedere come stai non produce nessun risultato io lo faccio da 30 anni

  • Sergio |

    Molto interessante Riccarda!
    Grazie molte per l’articolo.

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