Sopravvissute: perché lo stupro come arma di guerra non rientra nei libri di storia

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L’occhio dell’Occidente veglia sul mondo contemporaneo e se ne fa coprotagonista: interventi militari, Onu, aiuti umanitari, tutto sfocia all’interno di un ipotetico equilibrio che si traduce comunemente in una lotta tra bene e male, buoni e cattivi, forti o più deboli. Difficilmente un libro di storia conterrà l’elenco o le specificità delle metodologie militari. Troppa violenza, troppo disumano. Il bene e il male mutano nelle maschere dei vinti e dei vincitori a seconda dell’occasione. Come scrive la giornalista Christina Lamb in “I nostri corpi come campi di battaglia” (Mondadori): “Più faccio questo lavoro, più divento inquieta, non soltanto per gli orrori che ho visto, ma perché penso che spesso sentiamo solo la metà della storia, forse perché quelli che mettono insieme i resoconti, in genere, sono uomini.”

In sostanza, la nostra società non sembra pronta per integrare la realtà della violenza di genere nel racconto storico, nonostante disponga di tutti gli strumenti per promuoverne la divulgazione a livello educativo. Forse lo stupro come arma di guerra non è sufficientemente politico, forse le torture fisiche, psicologiche, i tentativi di sterilizzazione e l’obbligo alla rieducazione sembrano fatti ancora troppo lontani. Non è una questione locale, è una questione globale. Il giornalismo in questo si pone come l’eterno ponte d’oro: quello che fu il Vietnam per penne come Oriana Fallaci e Tiziano Terzani (rispettivamente in “Niente e così sia” e Pelle di eopardo”) è ancora oggi è il resoconto necessario del mondo attraverso reporter e testimonianze dirette. Una letteratura dedicata comincia a raccogliere i profili delle donne sopravvissute ai genocidi e alle guerre. “La mia storia, raccontata in modo onesto e concreto, è la mia arma migliore contro il terrorismo, e ho intenzione di usarla finché quei terroristi non verranno processati”, scrive Nadia Murad, premio Nobel per la pace 2018, nel suo libro “L’ultima ragazza” (Mondadori). Dall’Asia, all’Africa fino al Sudamerica, tre volumi viaggiano legati da un’atroce verità di genere, che non può e non deve più essere censurata.

“Sopravvissuta a un gulag cinese. La prima testimonianza di una donna uigura” (add editore) è la storia di Gulbahar Haitwaji, donna uigura sopravvissuta ai campi di rieducazione dello Xinjiang, liberata grazie all’aiuto della Francia. Il libro è curato da Rozenn Morgat, reporter esperta della questione uigura. “È la mia storia, voglio andare fino in fondo. È il mio dovere da uigura”, scrive Gulbahar. Questo libro rappresenta un pericolo per lei e la sua famiglia, oltre a farsi stendardo della scelta politica del governo cinese di annientare un’etnia. Gulbahar e la sua famiglia, consapevoli della nausea cinese nei confronti della comunità uigura, decidono di trasferirsi in Francia. Nel 2016, Gulbahar viene contattata da un funzionario dello Xinjiang e richiamata in patria con l’inganno di una verifica burocratica, verrà successivamente arrestata e deportata, privata di documenti e assistenza legale. Accusata di terrorismo a causa di una foto scattata a sua figlia durante una manifestazione organizzata dall’Associazione Degli Uiguri in Francia, Gulbahar rimarrà in uno stato di prigionia fino al marzo del 2019, sperimentando la realtà dei “campi di rieducazione” cinesi.

Gli uiguri praticano un islam sunnita, la loro cultura attinge a radici turciche e non cinesi. Nel 1955, l’arrivo dei comunisti promuove il ricongiungimento dello Xinjiang alla Repubblica popolare cinese sotto il nome di “regione autonoma dello Xinjiang”, in mandarino “nuova frontiera”. Ma le nuove vie della seta non possono essere messe a rischio dalla presenza del “terrorismo islamico” professato dagli uiguri. Secondo Amnesty International e Human Rights, oltre un milione di uiguri è stato deportato nei campi. Il libro di Gulbahar ritrae la prigionia delle donne, la condizione fisica e psicologica dove l’io è privato di ogni fantasia o preghiera, dove il proprio corpo si spoglia delle fattezze femminili per omologarsi alla cattività della massa.

“Vorrei gridargli in faccia che resterò per sempre una donna libera”. La scrittura di Gulbahar è densa, chirurgica. Sviscera il suo calvario nel tentativo di salvarsi l’anima: malnutrizione, paura, insonnia, isolamento fisico e violenza. Ma, soprattutto, descrive l’operazione di lavaggio del cervello studiata a tavolino per obbligare gli uiguri a privarsi del loro credo e della loro eredità culturale. Se le detenute sono abbastanza fortunate, possono accedere alle “scuole”, redimersi e convertirsi, inneggiando la gloria del Partito comunista cinese e del presidente Xi Jinping. Una prigionia educativa organizzata per annientare un’intera etnia.

Nell’agosto del 2018, l’Onu condanna ufficialmente i campi di rieducazione in Cina. Quest’ultima, nell’ottobre dello stesso anno, riconosce pubblicamente l’esistenza dei centri di “trasformazione attraverso l’educazione”, negando qualsiasi tipologia di violazione dei diritti umani. Come scrive Gulbahar “(La Cina) li definisce semplici centri di formazione professionale mirati a combattere il terrorismo, l’islamismo radicale e la disoccupazione”. Un passaggio fondamentale del libro è la questione della vaccinazione. Le donne vengono vaccinate, con il sospetto di tutte che si tratti di una vera e propria sterilizzazione di massa. Il dubbio viene confermato a giugno del 2020 dalla pubblicazione di un nuovo report del ricercatore Adrian Zenz dal titolo “Sterilizations, IUDs and Mandatory Birth Control: the CCP’s Campaign to Suppress Uyghur Birthrates in Xinjiang.”

“Tutte queste violazione erano tappe verso l’esecuzione delle nostre anime.” scrive Nadia Murad, sopravvissuta al genocidio della comunità yazida e autrice del libro-testimonianza “L’ultima ragazza” (Mondadori). Nel 2014, l’Isis entra a Kocho, cittadina dell’Iraq settentrionale a Sud delle montagne di Sinjar. Nadia ha ventun anni, professa una fede senza Corano, ma non senza dio. Il popolo yazida, al contrario di un governo despota o di un’organizzazione terroristica estremista, non può obbligare nessuno a convertirsi. Il loro credo è unico, devoto all’Angelo Pavone, il collegamento di Dio con la terra e il tramite fra l’uomo e il paradiso. Questo rende la comunità ancora più legata alle proprie tradizioni, alla loro cultura rurale.

L’Isis, dopo aver seminato morte e distruzione per giorni, entra a Kocho con l’obiettivo principale di uccidere, convertire, e schiavizzare sessualmente le donne yazide. Prima di essere ripetutamente palpata da un militante, Nadia non ha mai sentito nominare la parola sabaya. La sabaya è una preda, una donna che viene comprata e venduta come schiava sessuale. La sabaya è una schiava infedele, pertanto il suo stupro non è peccato secondo la loro interpretazione del Corano. I membri dell’Isis sostengono di essere fedeli a questa pratica tratta dal testo sacro, bandita in realtà dalle comunità musulmane di tutto il mondo. Scrivendola nelle fatwa e nei suoi opuscoli, questa disumana presa di posizione diventa realtà.

Nadia perde i suoi fratelli e sua madre, violentemente uccisi. Il suo libro assomiglia alla testimonianza diretta di un viaggio nell’inferno: la penetrazione non consensuale, la violenza e la realtà di un annientamento etnico. La storia sembra insegnarci che nessuna comunità a sé stante può sopravvivere, non fino a quando ci sarà un gigante che pretenderà di cancellarne la storia e la dignità. Parlando dell’invasione americana in Iraq nel 2003, Nadia dà al lettore una visione geopolitica di un Iraq perennemente frammentato e conteso, descrivendo il “progresso” innestato dagli americani: “Il Sinjar è un territorio conteso – rivendicato sia da Baghdad sia dal Kurdistan – collocato strategicamente vicino a Mosul e alla Siria e potenzialmente ricco di gas naturale. […] Dopo il 2003, con il sostegno americano e con gli arabi sunniti che stavano via via perdendo ricchezza e potere, i curdi schierati con il PDK furono ben felici di colmare il vuoto creatosi nel Sinjar”.

Con l’arrivo dell’Isis nel 2014, gli uomini più fortunati possono solo convertirsi, arruolarsi, immolarsi come scudo umano o attentatore suicida. Nadia scappa miracolosamente dai suoi stupratori seriali e scoprirà le reti clandestine create per aiutare le ragazze come lei. Nel novembre del 2015 partecipa a un forum organizzato dalle Nazioni Unite a Ginevra. “Volevo parlare di tutto quanto: i bambini morti di disidratazione fuggendo dall’Isis, le famiglie ancora bloccate sulla montagna, le migliaia di donne e bambini rimasti prigionieri, e quello che avevano visto i miei fratelli sul luogo del massacro” scrive.  Nadia oggi è un’attivista per i diritti umani.

Il genocidio della comunità yazida trova un comune denominatore nel libro “I nostri corpi come campi di battaglia” (Mondadori) di Christina Lamb, una delle reporter più importanti nel panorama estero, penna del Sunday Times e famosa per le sue precedenti collaborazioni con l’attivista pakistana Malala Yousafzai e la rifugiata curda siriana Nujeen Mustafa. Il libro di Lamb racchiude storie di donne e violenza tra Asia, Africa e Sudamerica, raccolte durante un lungo viaggio a tu per tu con la storia.

Comincia con il racconto di Naima, donna yazida venduta come sabaya a dodici uomini diversi. Nel capitolo dedicato alla comunità yazida parla anche lei delle reti clandestine per liberare le donne dalla schiavitù, e si scontra con la realtà del genocidio perpetrato dall’Isis: “Lo stupro è un’arma da guerra al pari del machete, di una mazza o di un kalashnikov. Negli ultimi, gruppi etnici e settari dalla Bosnia al Ruanda, dall’Iraq alla Nigeria, dalla Colombia alla Repubblica Centrafricana hanno usato lo stupro a fini deliberatamente strategici, come una sorta di arma di distruzione di massa”.

Nel 2008 il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva la risoluzione 1820 sull’uso della violenza sessuale nei conflitti, stabilendo che lo stupro e altre forme di violenza possono rappresentare un crimine di guerra, un crimine contro l’umanità o comunque un atto che afferisce al genocidio. A contatto con la comunità yazida, Lamb li definisce come il popolo più gentile che abbia mai incontrato e racconta di come l’Angelo Pavone sia associato dall’Isis a una figura satanica che appare nel Corano. Lamb racconta inoltre della persecuzione dei rohingya, delle tutsi violentate durante il genocidio ruandese e delle attiviste argentine alla ricerca dei desaparecidos e dei loro “bambini rubati”.

A seguire nel libro, Lamb paragona gli imam in Pakistan al terrorismo islamico dell’ISIS: secondo una fatwa, i combattenti bengalesi possono catturare le donne come gonimoter maal (bottino di guerra). Mette sullo stesso tavolo la violenza del genocidio e la cultura militare dello stupro. La particolarità della violenza commessa sulle donne risiede nella sua natura intima, che non lascia cadaveri e omicidi, rendendone più difficile la denuncia. Nel capitolo presso Sirajganj, Bangladesh, Lamb cita la legge storica del 1973, l’International Crimes (Tribunal) Act, dove lo stupro viene dichiarato crimine contro l’umanità. Ne descrive anche le conseguenze per le donne, marchiate come vittime: “Come le ragazze sequestrate da Boko Haram in Nigeria, sono diventate doppiamente vittime, subendo prima lo stupro e poi, quando hanno tentato di tornare a casa, l’ostracismo della comunità”.

C’è quindi anche un sentimento di fondo, un rigetto, qualcosa che non fa combaciare tutti i pezzi di queste storie. La consapevolezza che l’irreparabile esiste, e risiede nello spezzare le fondamenta della propria integrità. Ed è forse dovere di una società istruita comprendere la fragilità delle sopravvissute, o dei sopravvissuti. La vergogna e la violenza non sono richieste, vengono subite. La prova che tutto ciò può essere combattuto sta nei volti di chi oggi combatte, sui giornali, sui social media, nei congressi internazionali, attraverso i libri ed il grande potere della parola scritta.

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Titolo: “Sopravvissuta a un gulag cinese. La prima testimonianza di una donna uigura”
Autrici: Gulbahar Haitwaji, Rozenn Morgat
Editore: add editore
Prezzo: 18,00 €

Titolo: “L’ultima ragazza”
Autrici: Nadia Murad
Editore: Mondadori
Prezzo: 20,00 €

Titolo: “I nostri corpi come campi di battaglia”
Autrici: Christina Lamb
Editore: Mondadori
Prezzo: 22,00 €

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