“Sisterhood”: giocare a basket a Beirut, Roma e New York è fare la rivoluzione

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Beirut, New York e Roma: Domiziana De Fulvio riscrive una geografia personale sui playground di tre città dove il basket non è soltanto un gioco di squadra. “Sisterhood” è il suo primo documentario e racconta la storia di giocatrici che condividono il campo e qualche rivoluzione. Le ragazze della Real Palestine Youth si allenano nel campo profughi di Shatila, uno dei più grandi del Libano, costruito nel 1949 per accogliere i profughi palestinesi cacciati dalle loro terre in seguito alla nascita di Israele. Qui palestinesi e libanesi fanno parte dello stesso team fondato nel 2012 da Majdi, l’allenatore che ha creduto nel progetto di un gruppo di sole donne. E non è stato facile. Le opposizioni arrivano tuttora sia dai cittadini palestinesi che non accettano di vedere le ragazze impegnate nello sport, ma anche dalle autorità libanesi: giocare in un campionato contro altre formazioni libanesi è ancora fuori discussione. Durante la pandemia la Real Palestine Youth ha sospeso gli allenamenti per consegnare aiuti alimentari alle famiglie più bisognose del campo, dove la povertà e la disoccupazione dilagavano già prima dell’emergenza sanitaria.

sisterhoodPer le giocatrici il basket è un’occasione per sentirsi parte della comunità, dimostrando alle abitanti di Shatila che un’altra prospettiva è possibile. Infatti con il progetto Basket beats borders, nato nel 2017 dall’incontro di coach Majdi con David Ruggini e Daniele Bonifazi, due ragazzi italiani con un passato da volontari nei campi per migranti, le giovani della Real Palestine partecipano a scambi con altri Paesi. Ottenere i permessi è stato difficile, ma lasciare la propria terra per la prima volta è stata un’esperienza emozionante che le ha portate a scoprire nuove realtà. Come quella delle Bulle, una squadra di basket romana in cui ha giocato la stessa Domiziana De Fulvio. È stata proprio l’esperienza sul campo da gioco ad averla convinta a girare Sisterhood.

sisterhood_1Le Bulle si allenano in uno spazio occupato del quadrante est di Roma, al motto di “non chiamateci mamme!”. Sono donne adulte con il pensiero al canestro e alla voglia di dare un segnale politico in risposta al razzismo, al clima di violenza e oppressione presenti in città. E lo stesso impegno appartiene anche alle Ladies Who Hoop di New York, un team che promuove eventi a sostegno dell’empowerment femminile e offre gratuitamente corsi di basket alle ragazze del quartiere. La metropoli tempio della pallacanestro diventa quindi un punto di riferimento per la società grazie alla dedizione delle Ladies.

sisterhood_10In Sisterhood non c’è spazio per le immagini patinate, perché la regia è coerente con la strada e le sue storie. Alley Oop ne ha parlato insieme a Domiziana De Fulvio, nei giorni in cui stava partecipando al premio “Bookciak, azione!”, evento di pre-apertura della “Giornata degli Autori” durante l’ultima edizione del Festival di Venezia.

Nel tuo documentario il basket è un’occasione per parlare di “sorellanza”. Come nasce questa intuizione?
Il progetto nasce da un punto di vista personale. La cultura di strada, che ha contribuito alla mia formazione tra film, arte e vita vera, ha suscitato in me l’interesse verso i vari aspetti dell’aggregazione dei gruppi femminili. Vivendo in prima persona l’inizio di un’attività sportiva in età adulta ho trovato interessante ricercare delle affinità, dei punti di unione con le altre realtà che ho incontrato. Così, prima di iniziare a filmare le donne protagoniste, ho avuto l’occasione di conoscerle sul campo di gioco. Dopo aver trascorso del tempo insieme ho sentito la necessità di girare questo documentario, è stato inevitabile. E allora ho voluto tirar fuori tutta la forza della parola “Sista”.

Per quali aspetti, a tuo parere, le giocatrici delle squadre di New York, Beirut e Roma possono essere considerate dei role model?
Perché hanno cura di sé stesse, si prendono il loro spazio, il loro tempo e lo fanno insieme ad altre donne. In una società sempre più incentrata sull’individuo e il capitale, il loro approccio alla vita mi sembra un esempio da seguire. Queste realtà sportive e informali costituiscono presidi di resistenza contro la violenza maschile nei confronti delle donne, le marginalizzazioni sociali e rappresentano un forte impulso per la trasformazione della società.

Queste storie di playground hanno permesso di approfondire altre tematiche sociali?
Sisterhood racconta tre storie differenti di donne emarginate, che si riappropriano della loro vita creando gruppi al femminile. “Sista” è una parola che nasce nei contesti afro-americani: chiamarsi così vuol dire appartenere a una comunità, a una lotta. Il termine è stato poi ripreso anche dagli ambienti femministi degli anni Settanta. In questo documentario parliamo di donne rifugiate, nere, lesbiche, di classi più svantaggiate: il mio è un femminismo delle differenze e ho voluto creare un dialogo fra loro con immagini e punti di vista alternati.

Come cambia il basket da Beirut, New York, a Roma?
Se ci riferiamo alla tecnica e alle performance in campo direi che cambia tanto! Ma qui parliamo di altro: il basket non professionistico nasce e vive nella strada dove sono tante sono le regole non scritte, uguali in tutto il mondo. E mi riferisco, tanto per cominciare, all’esclusione delle donne che intendono invece riprendersi i loro spazi di libertà, in campo e fuori.

Qual è la rivoluzione delle ragazze del tuo documentario?
Faccio alcuni esempi. Penso a una giocatrice di Roma che rivendica l’importanza di disputare la partita in strada davanti agli occhi di tutti, o alle ragazze palestinesi e libanesi che scendendo semplicemente in campo compiono un atto rivoluzionario. A New York la situazione per certi versi è diversa perché mettere su una squadra femminile è stato molto più facile rispetto alle altre due realtà. La loro vera lotta è piuttosto il progetto rivolto alle bambine dei quartieri per garantire corsi di basket gratuiti, aiutando così anche le famiglie più in difficoltà. 

Qual è stato il tuo approccio alla narrazione, toccando realtà così diverse? Avverti una certa responsabilità nei confronti della storia dopo l’uscita del documentario?
Prima di affrontare il processo narrativo mi sono posta delle domande, che ho anche condiviso con le mie sorelle, nel campo e nella vita. Riflessioni che sono poi diventate un dialogo con la montatrice Francesca Bracci, con cui ho realizzato una specie di confronto tra le diverse realtà attraverso l’uso delle immagini. Sento un forte senso di responsabilità dopo aver reso pubbliche le storie di queste donne che con sincerità e generosità si sono aperte con me.

Com’è stato girare a Beirut?
Sicuramente un’esperienza forte, sia per me che per i miei compagni di avventura Nicolò Biarese, che ha curato la fotografia e Michal Kuligowski, addetto al suono. Il Libano è un paese in crisi politica da anni: partecipa per esempio al conflitto in Siria con i libanesi hezbollah, continua il suo contrasto con Israele e ostacola i rapporti commerciali con la Turchia. Noi abbiamo effettuato le riprese al campo di Shatila, dove vivono e si allenano le ragazze. Con il documentario affrontiamo in particolare la questione dell’integrazione tra ragazze palestinesi e libanesi, delle loro difficoltà quotidiane e di ciò che fanno per emergere dal confinamento in cui sono costrette per motivi culturali, religiosi e politici.

Che futuro immagini per “Sisterhood” e quali sono i tuoi prossimi piani?
Mi piacerebbe che Sisterhood continuasse a essere guardato, organizzando anche proiezioni nelle scuole. Spero che le tre squadre protagoniste si incontrino presto e che la visione del mio documentario possa stimolare la creazione di altri gruppi spontanei di donne che fanno sport, anche solo per divertimento. E soprattutto voglio continuare a esplorare nuove comunità, altre storie di lotte e di sorellanza.

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