Il femminismo della seconda ondata ne ha fatto simbolo di rivoluzione, quello della quarta le fa cantare “Libera di osare” in uno spot pubblicitario: la vagina torna preponderante nel dibattito sui corpi delle donne, cruciale punto di partenza di lotte e rivendicazioni. Body positivity, sex positivity, self confidence, self e basta: nel marasma di definizioni che si confondono nel femminismo pop che infiocchetta e impacchetta, il “personale è ancora politico”? La celebrazione del corpo – e della vagina – restituisce il senso di una battaglia sempre più intersezionale?
Nel 1996 Eva Ensler debuttava in un teatro di Broadway con “I monologhi della vagina” (Il Saggiatore), portando in scena le storie di più di duecento donne e dei loro corpi: “Ciò che non diciamo diventa segreto, e i segreti spesso creano vergogna, paura e miti. Dico vagina perché quando ho cominciato a pronunciare quella parola ho scoperto quanto fossi frammentata. Dico vagina perché voglio che la gente reagisca, e così è stato”. L’opera di Ensler apriva una breccia attraverso la repressione, la negazione e la vergogna di se stesse che la violenza sessuale e di genere avevano provocato: l’autrice racconterà, nella nota in copertina, che “la prima volta che ho messo in scena I monologhi della vagina ero certa che qualcuno mi avrebbe sparato”.
Ma ad accadere è stato altro: “Alla fine di ogni spettacolo c’erano donne che volevano parlare con me. Sulle prime ho pensato che volessero condividere le loro storie di desiderio e appagamento sessuale. In realtà si mettevano in fila per dirmi come e quando fossero state stuprate o aggredite. Ero sconvolta al vedere che, una volta rotto il tabù, si liberava un fiume in piena di memorie, rabbia e dolore”. Negli anni, lo spettacolo di Ensler è diventato format, spazio di discussione a partire da sé e ha dato vita al V-day: un movimento di attivismo globale per porre fine alla violenza contro tutte le donne e le ragazze.
Prendere parola come atto di resistenza
Prendere parola, per Ensler, è “un atto di radicale resistenza femminista” perché, se una cosa non viene nominata, non viene vista, non esiste: “quando rompi il silenzio ti accorgi di quante altre persone stessero attendendo il permesso di fare lo stesso. Noi – donne di ogni genere e tipo – non verremo più messe a tacere”. Vent’anni dopo, a parlare – per la maggiore – sono le vagine degli spot pubblicitari e i corpi #nofilter che brillano sui social sotto lo slogan inclusivo per cui “ogni corpo è valido e bello così com’è”. Il movimento body positivity – nato negli anni 70 e 60 nei gruppi della fat acceptance e poi esteso a tutti i corpi non conformi – si propone di riconoscere tutti i corpi che non si collocano nei canoni socialmente accettati.
Ma la versione stereotipata del movimento, cavalcata da brand e pubblicità, altro non fa che rafforzare le stesse regole del gioco denunciate da Ensler. Gli automatismi utilizzati per rassicurare le donne sul fatto di essere belle e valide cambiano la prospettiva, ma non le regole. Il valore degli esseri umani – e delle donne – continua a essere associato al concetto di bellezza, misurato sui corpi. Mentre i femminismi combattono l’oppressione strutturale contro le donne, la mercificazione dei loro corpi conviene e vende.
Ogni generazione ha i suoi strumenti e nominare rimane una pratica necessaria: ma se altrettanto necessario e urgente fosse spostare completamente il focus della discussione dal corpo femminile? Diventarne padrone, al punto da “liberarsene”, diventa un atto di insubordinazione e libertà. Così, rileggere Ensler nel 2021, significa porsi nuove domande per cercare nuove risposte: perché rivendicare la propria accettazione deve – di nuovo – passare per l’ostentazione ripetitiva e compulsiva del corpo? Non si dovrebbe agire al contrario e provare, piuttosto, a farne esperienza diretta? Il corpo come soggetto attivo, sottratto a ogni tipologia di rappresentazione e narrazione: di corpo si parla troppo e il discorso rischio di diventare stagnante.
Una forma di autocoscienza semplice e viscerale
Un esperimento interessante a riguardo, lo racconta Gloria Steinem nel suo “Elogio dei corpi delle donne” (VandA edizioni): in questo testo, apparso per la prima volta nel 1982 sulle colonne di “Ms” — la rivista fondata nel 1972 da Steinem con l’obiettivo di diffondere verso ampie masse di lettrici i contenuti del femminismo radicale — Steinem si chiede che cosa può accadere quando un’aggregazione eterogenea di donne si ritrova nello stesso luogo e sperimenta una forma di intimità fisica sottratta allo sguardo maschile: “Quando è stata l’ultima volta che avete trascorso qualche giorno a stretto contatto con altre donne, vestendovi e spogliandovi, chiacchierando, facendo la doccia, rilassandovi – quel genere di intimità disinvolta che sembra più tipico degli spogliatoi maschili?”.
La risposta è affidata al racconto di un’esperienza realmente vissuta da Steinem insieme a una novantina di altre donne riunite per qualche giorno in un centro benessere, “una forma di autocoscienza semplice e viscerale” da cui emerge tutta la solidarietà affettiva che unisce le donne quando l’imperativo della concorrenza estetica e di subordinazione ai modelli imposti lasciano il posto alla scoperta delle proprie potenzialità: “Forse saremo completamente a nostro agio con noi stesse soltanto quando riusciremo a valorizzare le cicatrici come simboli di esperienza, spesso condivise dalle altre donne, e a considerare i nostri corpi capitoli unici di una storia comune. Per farlo abbiamo bisogno di stare assieme senza imbarazzi. Abbiamo bisogno di vedere regolarmente una realtà variamente assortita per logorare l’immagine plastificata-stereotipata-perfetta con cui ognuna di noi è stata addestrata a misurarsi”.
Quarant’anni dopo la pubblicazione di Steinem, lo stesso messaggio di insubordinazione chiede ancora di essere raccolto e reinterpretato.
Nominare la “parola proibita”
Lo fa Alex, la giovanissima protagonista di “Bad habits. La parola proibita” (De Agostini), decidendo di portare in scena “I monologhi della vagina” di Ensler al liceo St. Mary, la “bigotta scuola cattolica” in cui i genitori la costringono: “Non mi ero lasciata scoraggiare dal fatto che nessuno dei teatri del campus avrebbe ospitato I monologhi della vagina, così avevo deciso di perseguire il mio obiettivo in modo diverso. Tanto non avevo bisogno di quegli edifici polverosi. Lì dentro aleggiava odore di incenso e repressione. Avevo scelto un nuovo approccio. Avremmo recitato I monologhi della vagina in modo diretto, così com’erano: crudi, scioccanti e senza filtri. Avremmo fatto un flash mob”. Nominare la parola proibita per scardinare le regole: se Alex ne è convinta, il suo alter ego Mary Kate non lo è per niente. Sarà proprio l’amicizia con Alex a svelarle una nuova parte di sé e a scardinare convinzioni e giudizi. Devota, dedita allo studio e profondamente pudica, al punto di non riuscire a nominare il titolo dello spettacolo che Alex vuole mettere in scena, Mary Kate e il suo rapporto con la ribelle Alex restituiscono ai giorni d’oggi quella “forma di autocoscienza semplice e viscerale” descritta da Gloria Steinem: fare esperienza di sé senza pregiudizio, con e attraverso gli altri, apre a una nuova forma di conoscenza e coscienza. La storia di “Bad habits. La parola proibita”, ispirata alla biografia dell’autrice Flynn Meaney e ai suoi anni di studio, lo conferma: il personale può essere, ancora, politico.
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Titolo: “I monologhi della vagina”
Autrice: Eva Ensler
Editore: Il Saggiatore
Prezzo: € 17,00
Titolo: “Elogio dei corpi delle donne”
Autrice: Gloria Steinem
Editore: VandA edizioni
Prezzo: € 8,90
Titolo: “Bad habits. La parola proibita”
Autrice: Flynn Meaney
Editore: De Agostini
Prezzo: € 15,10
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