Ecco cos’ha a che fare l’identità di genere con l’economia

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Prof, ma dobbiamo proprio studiarla l’identità di genere? Non sono tutti d’accordo …

Chi non è d’accordo? Se parliamo di economia, siamo consapevoli del fatto che l’identità di genere è una categoria analitica di questo sapere disciplinare, come la domanda e l’offerta, il salario e la disoccupazione, la segregazione e la discriminazione, e così via, almeno in questo secolo.

Era l’anno 2000 quando George Akerlof (Nobel per l’Economia 2001) pubblicava con la psicologa Rachel Kranton l’articolo, intitolato “Economics and Identity“, che dava inizio al filone di ricerca su questo tema sviluppatosi nel decennio successivo e condensato nel volume “Identity Economics“ del 2010. L’identità delle persone diventa così un concetto fondamentale per studiare l’allocazione delle risorse nelle economie moderne, dove si abbandona l’ipotesi di omogeneità degli agenti e si assume invece l’ipotesi che gli individui siano tutti diversi tra loro. In tale contesto, infatti, la diversità delle persone e la rilevanza economica della loro identità sono collegate: ciò che distingue è anche ciò che identifica, e l’identità degli agenti diventa un elemento fondamentale dell’organizzazione degli scambi.

Akerlof e Kranton (2000) sostengono che gli individui non hanno solo preferenze riferite a beni e servizi, ma aderiscono anche a norme sociali su come le persone dovrebbero comportarsi, e sono proprio queste regole di comportamento che definiscono le caratteristiche della loro identità sociale. “Gli agenti economici possono, più o meno consapevolmente, scegliere chi vogliono essere”, e poiché “l’identità è fondamentale per spiegare il loro comportamento, la scelta dell’identità può rappresentare la più importante decisione “economica” che un individuo possa prendere” (p. 717).

In tale contesto, Akerlof e Kranton (2000) introducono il concetto di identità di genere: “A tutti nella popolazione viene assegnata una categoria di genere, “uomo” o “donna”. Seguire le prescrizioni comportamentali per il proprio genere afferma la propria immagine, cioè definisce la propria identità di “uomo” o “donna”. Violare tali prescrizioni sociali provoca ansia e disagio, in se stessi e negli altri. L’identità di genere, quindi, cambia i “pay-off” (cioè i costi e benefici) delle diverse azioni” (pp. 716-717).

L’intreccio tra preferenze genuine e stereotipi sociali è al centro delle ricerche di Akerlof e Kranton (2010), che includono nella funzione di utilità anche i costi e i benefici che derivano dalle decisioni relative all’uso del tempo e alle scelte professionali degli individui, a seconda che siano ritenute più o meno consone al proprio genere secondo le norme sociali vigenti. Ne consegue che, a parità di ogni altra condizione, gli uomini massimizzeranno la propria utilità scegliendo attività, percorsi formativi e professioni “da uomo”, e le donne scegliendo attività, corsi di studio e mansioni “da donna”. Similmente, i datori di lavoro preferiranno assumere uomini per i lavori ritenuti più adatti al genere maschile, e donne per i lavori ritenuti più adatti al genere femminile.

Prof, ma se le donne sono più presenti nei loro settori, e gli uomini nei loro settori, che male c’è, se ciascuno è libero di scegliere quello che preferisce?

Nessun male, se si tratta di scelte che derivano da preferenze genuine, ma se la scelta è una conseguenza del condizionamento degli stereotipi sociali, allora diventa un vincolo alla libera espressione delle proprie attitudini e alla rivelazione del proprio talento. Per dirla proprio in breve, se le bambine sono incoraggiate a giocare con il bambolotto, e i bambini col trenino, può essere che il 93% di addette alla sorveglianza dei bambini e il 98% di addetti alla conduzione di convogli ferroviari non siano l’esito di una scelta del tutto libera dal condizionamento degli stereotipi di genere.

Per questo motivo, le politiche dell’Unione europea sostengono il principio di gender equality, per il quale tutti devono essere liberi di perseguire le proprie aspirazioni e sviluppare le proprie abilità senza subire le limitazioni imposte da rigidi ruoli di genere, e devono essere considerati, valutati e incentivati in egual misura, indipendentemente dalla propria identità sociale.

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  • albaz |

    Buttato lì così è abbastanza ambiguo il concetto.

  • ezio |

    C’è un limite alla formulazione delle pretese d’identità del genere percepito e questo limite è rappresentato dall’età biologica del soggetto.
    Lo sviluppo ormonale si orienta prevalentemente nella preadolescenza e si completa con la fine dello sviluppo adolescenziale, con la presa di coscienza anche razionale dei propri gusti ed attrazioni, mediante tutto il ventaglio dei comportamenti connessi (atteggiamento, look, emozioni, amicizie, desideri, sogni, ecc…).
    Indagare prima di tale sviluppo, se prevalgono i desideri e le affinità per le bambole o tiri al pallone, oltre che essere biologicamente e psicologicamente prematuro, è anche rischioso perché fuorviante per chi indaga e soprattutto per i soggetti indagati.
    Quindi nessuna ansia di determinazione ne d’insegnamenti, ma libertà d’espressione per i minori senza creare conflitti, almeno fino all’odolescenza manifesta, poi sostenerli al massimo per la libera espressione delle loro caratteristiche di genere percepito e desiderato.

  • gloria |

    ottimo articolo che butta una pietra nello stagno a proposito dell’educazione che ancora ripropone canoni rigidi di educazione di genereComunque le proprie potenzialità, pur seguendo un percorso tortuoso riusciranno ad emergere.

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