Lavoro, smettiamo di trattare i dipendenti come adolescenti

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E’ in corso nel mondo del lavoro un’insostenibile situazione di squilibrio. Ed è ancora più insostenibile perché invisibile: scorre sullo sfondo, ignorata dai più. Si tratta del modo in cui (non) si parla delle responsabilità che i collaboratori hanno verso i propri manager. Se si inseriscono le parole “collaboratori”, “responsabilità” e “manager” su un motore di ricerca, l’unica connessione che emerge riguarda le responsabilità dei manager verso i propri collaboratori: non c’è niente, insomma, che vada nella direzione opposta.

E’ vero, i manager possono fare molto per abilitare le persone che lavorano con loro. Sappiamo che il benessere di chi lavora dipende in larga parte dalla qualità del rapporto con il proprio “superiore”, e la lente è sempre puntata su quest’ultimo: sulla sua capacità di rendere la relazione fertile e produttiva. I manager vengono formati a coordinare, comprendere, guidare i propri collaboratori, restando saldi nei tempi più difficili e dando risposte chiare. I manager si allenano a migliorare il proprio grado di empatia, mentre la leadership diventa “caring” e richiede dosi addizionali di vicinanza e di attenzione: la leadership diventa in qualche modo orizzontale perché deve innescare reti di collaborazione, ma la responsabilità continua a stare tutta da una parte, quella dei manager.

La parola “responsabile” è un possibile sinonimo della parola “capo”: è forse per questo facciamo tanta fatica a far scendere la responsabilità al livello sottostante, sui cosiddetti (!) sottoposti? I sottoposti, oltre a essere “dipendenti”, non possono quindi considerarsi altrettanto responsabili? Lo sono certamente della propria area di lavoro e dei propri risultati: le responsabilità dei lavoratori verso la propria azienda sono chiarite a livello contrattuale. Per il resto però, in ancora troppi casi il livello di responsabilità relazionale che si attribuisce ai collaboratori li relega ad essere trattati più come adolescenti che come adulti responsabili, secondo una dinamica manageriale che richiama un modello di leadership paternalistica del ventesimo secolo.

Nonostante si parli sempre di più di una leadership orizzontale e diffusa, la direzione della guida e delle decisioni resta sostanzialmente dall’alto verso il basso, e la direzione delle richieste e delle attese segue la direzione opposta. Si, le persone attendono, e questa attitudine dà forma alle attuali dinamiche di de-responsabilizzazione ancora più del modello di “comando e controllo” della vecchia leadership. Bisogna infatti evitare di pensare, nel prendere consapevolezza di questa asimmetria, che la soluzione stia ancora una volta nelle mani dei leader. Non è così. O forse è così, ma solo temporaneamente, per innescare una nuova  cultura?

Mentre i cambiamenti accelerano ed è sempre più necessario muoversi tutti insieme, continuamente, per mantenere vivo e produttivo il senso del proprio lavoro, come mai ai collaboratori non viene chiesto di prendersi cura dei propri manager? Come mai l’onere dell’ascolto, della relazione e della gestione sta solo dalla parte del manager? I collaboratori non sono figli, mentre persino ai figli a un certo punto – meglio prima che dopo – si inizia a chiedere di vedere nei propri genitori anche altro, oltre a degli adulti che gli dicono cosa fare mentre al contempo sono al loro servizio. Tocco una nota dolente: in Italia i figli restano figli più a lungo che in quasi tutti gli altri Paesi europei. I figli restano “a carico”, e i genitori fanno fatica a proporsi come adulti alla pari. Proporsi in sostanziale parità, infatti, vuol dire cedere il controllo ma anche acquisire dei potenti alleati, e lo stesso vale sul lavoro.

Stiamo insegnando ai manager a riconoscere la propria vulnerabilità, a chiedere aiuto, ad ammettere di non avere sempre tutte le soluzioni. Ma stiamo nel contempo insegnando ai collaboratori a colmare gli spazi che si liberano così: spazi per prendersi dei rischi, per mostrarsi forti, per rivelare nuove capacità e disponibilità a mettersi in gioco? Quale formazione aziendale insegna a coltivare una relazione con il proprio capo che, come tutte le relazioni, fondi il proprio successo su un coinvolgimento, una volontà e una capacità di cura condivisi in parti uguali? Non si tratta solo di una “cultura del feedback”: il feedback riguarda la restituzione di qualcosa che si riceve, non la presenza di una responsabilità verso il dare qualcosa a prescindere.

Dobbiamo smettere di trattare i dipendenti come dei bambini“, ha detto durante il Congresso Nazionale AIDP di questa settimana il professor Isaac Getz, autore di “Freedom inc”. Che effetto farebbe quindi spostare i riflettori sui collaboratori, iniziando a trattarli pienamente come adulti: persone in grado di prendersi cura dei propri capi, di aspettare di meno e di partecipare di più?

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  • Daniela D'Angelo |

    Mi occupo di risorse umane da circa vent’anni trovo i vostri articoli sempre interessanti mi piacerebbe riceverli con costanza. Grazie

  • gloria |

    dipendenti come bambini??? non siamo più al mediovevo già da molti anni come ha detto un umile dipendente di un ente pubblico del nord, “sono le rotelline piccoline che fanno girare qelle più grandi” quindi svegliamoci una buona volta e premiamo i cosiddetti collaboratori che offrono idee, suggerimenti e risposte preziose nel proprio ambito lavorativo.Si assiste talvolta anche ad una avarizia nel premiare nel punteggio a dipendenti che pur sfidando il covid hanno prestato la propria attività.Ci sarebbe molto da dire e poco si fa per rendere un ambiente di lavoro “sano”, così da permettere un eccellente funzionamento soprattutto nel pubblico ambito dove chi veramente merita viene mobbizzato questo sia al sud che al nord

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