Fare impresa per proporre soluzioni nuove e diverse, abituarsi a parlare di denaro perché l’autonomia economica protegge e rende libere, familiarizzare con il concetto di potere e declinarlo al femminile, anche se un modello femminile di potere nei libri di scuola non ce lo hanno fatto vedere – eppure storicamente è esistito, scoperto e rivelato al mondo dall’archeologa Marija Jimbutas. Queste sono solo alcune delle tante cose che le donne potrebbero fare per provare a venir fuori dal cul de sac a cui la storia sembra averle destinate: un collo di bottiglia che frena non solo loro, ma l’evoluzione dell’intera specie, mentre la nostra incapacità di cambiare minaccia la sostenibilità dell’intero pianeta. Puntare il dito sul colpevole, per esempio, della pandemia, è un gesto di cui si comincia a intravedere traccia nelle conversazioni intergovernative: ma cercare in una sola direzione sarebbe un grave errore, sarebbe un inutile gioco di prestigio. Con la pandemia abbiamo pagato le scelte di intere coorti di uomini (uso il maschile per il neutro, ovviamente) al comando nel mondo negli ultimi 50 anni – perché prendere decisioni vuol dire anche assumersi delle responsabilità.
Ci diciamo che abbiamo bisogno di numeri, di “prove” per sapere se quel che facciamo è giusto oppure sbagliato, se funziona oppure no (anche se ciò che funziona non sempre è giusto, e ciò che funziona meno potrebbe essere meno sbagliato). Ebbene eccoli di nuovo, i numeri, fino alla nausea: è uscito il nuovo Gender Gap Report del World Economic Forum, e ancora una volta l’Italia va male, malissimo. Certo, se si trattasse solo di una classifica potremmo quasi festeggiare: siamo in 63° posizione (una posizione vergognosa per l’ottava potenza economica mondiale, per un Paese in cui le donne votano da 76 anni) e abbiamo risalito 13 posizioni dallo scorso anno grazie a una valutazione della partecipazione politica che ha coinciso col numero di ministre del governo Conte, portandoci al 41° posto per questo indicatore. Ma restiamo una delle 81 economie, sulle 156 prese in considerazione dal report, che non hanno mai avuto una donna capo di Stato: non vi sembra un po’ strano?
In realtà no, non ci sembra strano: ci sembra più strano vedere due deputate “litigare” per una sedia da capogruppo – le chiamiamo risse proprio perché sembrano strane, tra donne, quando tra uomini sono all’ordine del giorno – che continuare a fare conferenze e inchieste sulle ragioni per cui le donne proprio “non ce la fanno”. I dati del Report dicono che le donne studiano molto e bene, anche se spesso le materie “sbagliate”, che hanno più o meno le stesse probabilità di sopravvivenza e di salute degli uomini (ma non siamo ancora in parità), ma che per cittadinanza economica e politica sono ancora indietro, in Italia e nel resto del mondo. Il progresso avanza – istruzione e salute sempre più accessibili a tutti – la cultura no: la cultura, infatti, riguarda il volere e sapere fare spazio alla diversità.
Vuol dire avere voglia di cambiare le cose, non solo di farle progredire: la direzione potrebbe non essere sempre quella, la velocità potrebbe diminuire, gli obiettivi cambiare.
Questo succede quando le popolazioni si mescolano e si arricchiscono: non in un processo di acquisizione, ma di fusione.
Che ci stiamo dimenando dentro a un bisogno di cambiamento è chiaro: la scorsa settimana ho iniziato una giornata parlando di diversità con 80 manager di un’azienda – e, quando mi hanno chiesto come potevano evitare di farlo solo per essere politically correct, ho risposto che il solo modo per evitarlo era sapere in effetti “perché” ne stavano parlando – discutendo di finanza e imprenditoria al femminile in una conferenza a ora di pranzo – le donne e il denaro, le bambine e la paghetta, l’avversione al rischio, la propensione però, all’innovazione – e prendendo la merenda con 30 ragazzine delle medie per capire che cosa pensavano del tema STEM – dopo aver chiarito che cosa fosse – e se per qualunque motivo avrebbero preso in considerazione di studiarlo: alla fine dei 90 minuti di merenda il 70% ha detto di sì! Insomma il tema gender gap (divario di genere) in Italia non avanza, ad avanzare è solo la distanza tra le opportunità di uomini e donne nel mondo: stanti così le cose avremo pari condizioni di vita tra 135 anni… contro i 99 del report precedente.
C’è un film del 1981 in cui Massimo Troisi cerca di “colmare il gap” tra lui e un vaso spostandolo col pensiero. Se il vaso si muovesse, la sua vita cambierebbe. Ma ecco, con la sola forza del pensiero e solo dicendo “vieni vieni”, la distanza non scompare. Troisi però e fortunato perché tra lui e il vaso, almeno, la distanza non aumenta, come invece sta succedendo tra la specie umana e la sua sfuggente equità di genere.
***
La newsletter di Alley Oop
Ogni venerdì mattina Alley Oop arriva nella tua casella mail con le novità, le storie e le notizie della settimana. Per iscrivervi cliccate qui.