Il tema delicatissimo della chiusura delle scuole provocata dalle restrizioni per contrastare la pandemia è, da un anno a questa parte, attentamente studiato ovunque nel mondo. Pur senza evidenze definitive, appare chiara una linea comune: l’interruzione delle lezioni in presenza impatta (drammaticamente) molto più che sulle sole curve di apprendimento.
Secondo l’UNESCO da marzo 2020 gli studenti son rimasti fuori dalle classi mediamente per 3 mesi e mezzo. Da un massimo di 5 mesi, come è successo in America latina, alla media in Europa di 10 settimane, fino al limite minimo registrato in Oceania, dove è stato perso “soltanto” un mese di lezioni sui banchi. A fine gennaio ancora più di 800 milioni di studenti, cioè più della metà del totale al mondo, erano toccati da un qualche tipo di interruzione del percorso scolastico. In un anno di pandemia, quindi, circa 214 milioni di bambini, uno su 7, hanno perso più di tre quarti di insegnamento in presenza.
Cosa dicono i dati?
La chiusura delle scuole è stata sempre una scelta molto dibattuta e altrettanto divisiva. Se da un lato è infatti apparso abbastanza chiaro da subito che le infezioni da Covid colpiscono generalmente meno e con forme tendenzialmente leggere i più piccoli, dall’altra non si è ancora capito del tutto la rilevanza della popolazione scolastica sulla diffusione del virus. Ancora poco, poi, si sa dell’impatto delle varianti su queste fasce di età. Nel mentre si sono moltiplicati i pareri degli esperti che mettono sulla bilancia i rischi dell’aumento dei contagi dovuti alle riaperture e gli effetti economico-sociali, sul benessere e la salute mentale delle generazioni più giovani (qui le conclusioni di uno studio pubblicato a fine novembre 2020).
Dopo mesi di dati, i ricercatori sembrano arrivare a conclusioni simili, per quanto non definitive o corroborate da numeri certi – bisogna tenere presente che un po’ ovunque bambini e ragazzi vengono testati meno, visto che spesso non presentano sintomi. Se confrontate alle percentuali registrate nelle comunità in cui si trovano, le scuole inciderebbero meno drammaticamente del previsto e non risultano quegli “hot spot” che si temeva. Il sito del ministero della Salute olandese, per esempio, lo afferma a chiare lettere: i più piccoli “si ammalano meno seriamente e quasi mai hanno bisogno di essere ricoverati” a causa del Covid. Inoltre la “contagiosità cresce con l’età. In generale: più piccoli i bambini, meno significativo il ruolo che giocano nella diffusione del virus”.
Chiusure criticate
Intanto però l’impatto della decisione di far studiare i ragazzi da casa come misura preventiva della diffusione del contagio risulta preoccupante per molti altri aspetti. Vengono minati il benessere psicologico, l’equilibrio sociale delle città, l’andamento delle disparità economiche e le occasioni di emancipazione. In molti casi anche l’accesso alle cure di base e addirittura al cibo. A un anno dall’inizio della pandemia, “ci viene ricordato la catastrofica emergenza educativa causata dai lockdown imposti nel mondo. Ogni giorno che passa, i bambini che non hanno accesso alla scuola in presenza restano sempre più indietro e i più emarginati pagano il prezzo più alto“, è il grido d’allarme di Henrietta Fore, direttrice esecutiva di Unicef, che aggiunge “Non ci possiamo permettere un secondo anno senza o con limitato accesso all’insegnamento a scuola per questi studenti. Non deve essere risparmiato nessuno sforzo per tenere gli istituti aperti o dare loro priorità nei piani della ripresa“.
Nel Regno Unito una parte degli studenti è potuta recentemente tornare in aula. Normale è stato chiedersi quali i pericoli per i bambini e quale l’incidenza delle lezioni in aula sulla diffusione del virus. Alcune voci sembrano chiare, anche in questo caso: il rischio di contrarre forme più severe nei più piccoli è basso (“tiny”, riporta la BBC, anche considerando la variante più contagiosa) e limitata la diffusione tra gli ordini di scuola primari. Gli insegnanti, inoltre, non sembrano essere percentualmente più colpiti dei loro coetanei che svolgono altre professioni: a dicembre il 15% dello staff scolastico è risultato positivo agli anticorpi, contro percentuali tra il 25 e il 50% tra il personale degli ospedali o, ancora, il 66% di chi lavora in case di cura dove sia stato registrato almeno un focolaio dall’inizio della prima ondata.
Questa situazione assomiglia ai risultati raccontati da un recente studio americano, considerato il più ampio effettuato sulla popolazione scolastica di una città. Sul totale di 234.132 di persone testate tra ottobre e dicembre 2020 nelle scuole pubbliche di New York, sono risultati positivi 986 test, lo 0.4%. Un’incidenza pari o più bassa rispetto alla comunità generale di riferimento.
Commentano gli autori, esperti del Dipartimento della salute della grande mela guidati dal Dr. Jay Varma, chief health adviser del sindaco de Blasio: “Notiamo che la ripresa dell’insegnamento in presenza nelle scuole pubbliche di New York non è stato associato a un aumento della diffusione o dell’incidenza complessiva delle infezioni da COVID-19, confrontato al resto della comunità“.
Quali conseguenze?
Di contro, fa riflettere leggere accanto a queste evidenze, i numeri dell’impatto della chiusura delle scuole sulla salute mentale di bambini e ragazzi. In particolare l’incremento in Usa in queste fasce di età dei casi registrati di depressione, autolesionismo e abuso di sostanze tra il 2019 e il 2020.
I dati ancora non permettono di affermare con certezza il livello di rischio per gli studenti che frequentano le lezioni in classe. Alla luce delle tante sfaccettature, però è necessario oggi considerare un po’ tutti gli effetti a catena che la chiusura delle scuole scaturisce. Certo ritardi nell’apprendimento, maggiori difficoltà di accesso all’istruzione e acuirsi delle disparità tra classi sociali, tra città e quartieri. Ma anche questioni di salute mentale giovanile e adulta, rischi per la società e pericoli per la tenuta delle conquiste in temi di parità e uguaglianza. Sì perché sono evidentemente i giovani e le donne a patire prima di tutti le conseguenze di queste scelte.
Le donne in particolare continuano a pagare il prezzo più alto della crisi causata dalle imposizioni della pandemia. Ovunque nel mondo, mette in allarme il World Economic Forum, stanno evaporando rapidamente tante delle conquiste in tema di occupazione femminile di questi decenni. A causa del carico aumentato della cura familiare, tra homeschooling e lockdown, le donne mediamente nei 12 mesi passati si sono occupate dei figli 7,7 ore in più degli uomini, tanto da venire molto spesso costrette ad abbandonare il lavoro. Senza contare che poi continuano ad avere contratti meno tutelati e rimangono generalmente meno preparate nel parlare i linguaggi digitali, che, lo sappiamo ormai per certo, caratterizzano i settori e le professioni del post-pandemia.
“Se i bambini dovranno affrontare un altro anno di chiusure scolastiche, gli effetti si sentiranno per generazioni a venire” – Dichiarazione della direttrice generale dell’Unicef, Henrietta Fore, 12 gennaio 2021.
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