Diciassette anni di spogliatoi tra Serie A1 e A2 di pallanuoto, quante volte mi è capitato di vedere giocatori che non rappresentavano lo stereotipo del campione… Uno su tutti, il più forte, Manuel Estiarte non era di sicuro un “armadio”, come la maggior parte delle persone definiscono i pallanuotisti. Il suo essere “piccolo e agile” permetteva però al suo talento di mostrarsi attraverso tecnica e velocità e, nello sport, quando riesci a vincere, convinci oltre ogni pregiudizio.
Purtroppo, quel “quando riesci a vincere” non è così comune. Questo costringe molti ragazzi e ragazze non “omologati” allo stereotipo ad affrontare momenti più duri di altri per poter realizzare il loro sogno.
Quante volte questo capita anche nel mondo del lavoro? Quanto siamo abituati in selezione o nelle fasi di crescita del personale interno a cercare qualcuno che rispecchi le attese che abbiamo costruito sulla base delle esperienze precedenti? Questo dubbio sottintende altre domande: abbiamo paura di includere chi è diverso? Perché?
La paura del diverso è ben rappresentata da un insieme di sensazioni ed emozioni che ci mettono a disagio e che nascono inconsapevolmente in noi quando ci troviamo davanti a persone con tratti differenti dai nostri. Questo timore, che con il tempo e con l’abitudine ad una società globale stiamo imparando a superare, trae origine dal funzionamento della nostra mente, che cerca di proteggersi da ciò che incontra attraverso la creazione di categorie che la definiscano.
Proprio questa “categorizzazione” è un processo cognitivo tanto involontario quanto spontaneo su cui si basa la discriminazione di ciò che appare differente. Il nostro cervello sente la necessità di elaborare le informazioni che raccoglie dall’ambiente circostante suddividendo cose, persone ed avvenimenti in categorie mentali. Questo modo di pensare risulta da una parte necessario ed importantissimo, in quanto l’identificarsi con un insieme o un gruppo aiuta ad approfondire la conoscenza di sé stessi e a formare la propria identità generando una sensazione di sicurezza, dall’altra può far insorgere reazioni di conflitto o di distacco rivolte a gruppi diversi che possono essere ritenuti “pericolosi” e quindi da allontanare o escludere.
Appare così naturale adagiarsi nella cultura dello stereotipo o del pregiudizio invece di cercare di crearsi una idea capace di ricevere le contraddizioni che incontra senza per forza evidenziare e polarizzare le diversità, allineandosi all’una o all’altra parte.
Spesso risulta assai più semplice avvicinarci a ciò che è simile, ascoltare una sola versione dei fatti, accettare una visione parziale delle storie e delle differenze. Siamo abituati ad anticipare l’opinione su quello che incontriamo rifacendoci a esperienze pregresse senza realmente considerare se ciò che abbiamo di fronte possa essere o meno qualcosa di interessante. Quello che per pregiudizio consideriamo non “omologato” diventa automaticamente una cosa “che non ci piace”.
Proprio all’interno di questo processo nascono gli stereotipi, il pregiudizio, e gli atteggiamenti ostili verso gli altri che possono all’estremo generare veri e propri attacchi discriminatori. Lo stesso meccanismo, tuttavia, si manifesta nella quotidianità personale e lavorativa di ciascuno di noi anche in forma meno evidente: i nostri modi di dire e le battute che scambiamo con amici e colleghi generano delle etichette, di cui siamo quasi sempre Inconsapevoli, ma capaci di creare profonde divisioni sociali.
La diversità, o per meglio dire, l’unicità di ogni essere umano non è sempre visibile, come nel caso dei tratti somatici, e ciò ci induce a non prenderla in considerazione, a rifarci ai nostri stereotipi senza soffermarci su ciò che realmente caratterizza l’altro. Ed è proprio questa visione parziale che limita le nostre percezioni e le nostre scoperte, che ci porta a non mettere in discussione ciò che ci aspettiamo di vedere o di sapere. Guardare oltre non è semplice perché ci allontana dalle nostre certezze, ma farlo ci apre nuovi orizzonti e nuove prospettive. A noi la scelta.
E sul lavoro?
In ambito lavorativo si cerca da tempo di mettere in atto dei correttivi che impediscano di favorire scelte basate su stereotipi e pregiudizi. Sono stati ad esempio costruiti percorsi di mappatura dei ruoli che consentono alle organizzazioni di definire in modo molto preciso il profilo di cui hanno bisogno. Attraverso le attività di osservazione e assessment è possibile poi effettuare delle scelte di selezione e di sviluppo basate sulle capacità che le persone realmente esprimono, senza che queste siano oscurate da altre caratteristiche. L’approccio scientifico innegabilmente aiuta a guidare le scelte aziendali, oscurando il ricorso al “sesto senso” o “alla prima impressione”, ma se non supportata da quel “saper guardare oltre” rischia anch’esso di essere limitato alla valutazione di ciò che è risultato efficace in passato.
Nel guardare avanti, invece, diventa sempre più importante pensare ad un approccio aperto e capace di leggere il talento anche dove non ci aspetteremmo di trovarlo. Possiamo prendere spunto dalla lungimiranza della squadra di calcio brasiliana del Botafogo che, a metà del secolo scorso, scelse di far crescere e giocare il grande “Garrincha”. Il due volte campione del mondo è oggi da molti esperti ritenuto il più forte dribblatore della storia del calcio, ma la sua carriera sportiva ha seriamente rischiato di non decollare. Il giocatore era afflitto da un leggero strabismo, da una spina dorsale deformata e da alcuni centimetri di differenza in lunghezza tra le due gambe. Per le numerose altre squadre più blasonate che lo scartavano “non sembrava capace di diventare un giocatore”!
Garrincha, che vinse tutto con Pelè ed è ancora oggi uno dei giocatori più amati in patria, seppe convincere il Botafogo del suo amore per il calcio e la squadra lo aiutò a rendere la sua differenza fisica (la gamba più corta che tanto spaventava gli amanti del “fisico perfetto”) il punto di forza con cui sbilanciare gli avversari.
Auguriamoci che ogni talento incontri sul suo cammino qualcuno in grado di scorgerlo oltre la differenza. Ma ricordiamoci anche che il più delle volte siamo noi ad essere “Garrincha” o “Botafogo”, ognuno nel proprio ambito.