Sbagliare non è sbagliato, se non si ha paura di cambiare idea

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Quante volte cambiamo idea, ogni giorno? Probabilmente meno di quanto potremmo e molte meno di quanto dovremmo. Non cambiamo idea perché cambiare idea è faticoso, ma non solo. Non cambiamo idea perché pensiamo che voglia dire riconoscere di “aver sbagliato”, e questo aggiunge un secondo livello di fatica – senso di colpa, inadeguatezza – al dover rivedere il proprio punto di vista. E’ in uscita in questi giorni il libro “Think again”, dello psicologo Adam Grant: il titolo completo in italiano è “Ripensa: il potere di sapere ciò che non sai”, in cui l’autore esplora in lungo e in largo il mondo di possibilità che si apre a chi fa pace con l’idea di cambiare idea spesso, anche più volte al giorno.

Ma perché siamo biologicamente e culturalmente inclini a mantenere le nostre posizioni? Dal punto di vista biologico, come spiega il fisico Carlo Rovelli nel suo ultimo libro, Helgoland:

“La maggior parte dei segnali non viaggia dagli occhi verso il cervello: viaggia in senso opposto, dal cervello verso gli occhi. Quello che succede è che il cervello si aspetta di vedere qualcosa, sulla base di quanto è successo prima e di quanto sa. Elabora un’immagine di quanto prevede che gli occhi debbano vedere. (…) Dagli occhi verso il cervello viaggia solo la notizia di eventuali discrepanze rispetto a quanto il cervello si attende”.

In pratica, andiamo per il mondo guardando le cose attraverso il filtro di ciò che ci aspettiamo di vedere, in cerca di continue conferme che abbiamo ragione – conferme che fanno risparmiare energia preziosa al nostro cervello – e solo in seconda battuta disponibili a ricevere segnali contrastanti e cambiare sguardo. Sì, si tratta proprio di cambiare sguardo – e vale anche per l’ascolto e più generalmente per la comprensione di ciò che abbiamo intorno – perché per natura privilegiamo la coerenza e le conferme del già noto, che ci fanno sentire bene e al sicuro. Quindi biologicamente non siamo inclini a cercare segnali che contraddicano la nostra immagine delle cose, ed è così che riusciamo a essere veloci e capaci di gestire enormi masse di informazioni.

Dal punto di vista culturale, si potrebbero scrivere libri interi su come la nostra cultura tratta l’errore. La convinzione che sbagliare sia una colpa nasce molto lontano ed è difficile da sradicare, perché non è espressa in modo esplicito ma sottile, più nelle conseguenze che nelle cause, sin da quando andiamo a scuola.

Quanti sono, però, i motivi per cui sbagliamo, quante storie diverse (e conseguenze variegate) vi sono dietro al fatto di contraddirsi o di cambiare idea? L’errore e il cambio di opinione sono due elementi distinti all’interno di un ampio spettro di possibilità che la specie umana ha, e che si è rivelato la strada più veloce ed efficace verso l’apprendimento. Ma non si tratta solo di questo. Sarebbe riduttivo direi che saper cambiare idea è importante perché consente di apprendere: sarebbe come al solito un ridurre tutto a mera causalità.

C’è molto di più, e nessuno ha saputo dirlo meglio del poeta Walt Whitman, con il suo:

“Mi contraddico? Si, mi contraddico.
Sono ampio: contengo moltitudini”.

Proprio per la ricchezza dei nostri pensieri, per l’infinita varietà di sfumature che siamo capaci di vedere nel mondo, non possiamo fare altro che modificare continuamente le nostre idee, arricchendole con quelle di chi non è d’accordo con noi perché del mondo sta vedendo un altro angolo.

“Se il cambiamento fosse meno spaventoso, se il rischio non apparisse così grande, molte più cose potrebbero essere vissute

dice l’antropologa Mary Catherine Bateson nel suo “Comporre una vita”, in cui, come fa anche Adam Grant, suggerisce di uscire dal ragionamento a sole due voci – che ci porta a cercare sempre un torto e una ragione – e a esplorare ogni argomento da almeno tre punti di vista diversi. Scoprire che tutti e tre – o anche di più – hanno ragione di esistere, che sono mappe diverse che insieme compongono ancora solo in parte la ricchezza della realtà, alleggerirebbe il carico di rischio che sentiamo nel cambiare, e ci consentirebbe di vivere molte più vite.

Uno dei capitoli del libro di Grant ha un titolo che potrebbe diventare materia scolastica, e recita così: “La gioia di avere torto: il brivido di non credere a tutto ciò che pensi”. Non è che poi valga meno se lo tratti con più leggerezza: alla fine ogni pensiero merita di essere onorato e, quando non serve più, lasciato libero di andare via.

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