Incontri in luoghi straordinari, anche in tempo di pandemia

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Collezionare fotografie è collezionare il mondo, ha scritto Susan Sontag. Le immagini della tivvù e del cinema illuminano, tremolano, ma subito spariscono, mentre la fotografia è un oggetto consultabile, interpellabile, da conservare nel nostro archivio, un po’ mondo, un po’ finestra sul mondo.

Chiusi in casa in questi mesi abbiamo partecipato degli altri attraverso le foto, filtrate e romanzate e offerte ogni giorno più volte al giorno. Mai quanto in questo tempo sospeso, d’attesa, condividere sui social uno spazio comune, l’illusione di una casa sconfinata composta da tutte le case degli altri, le stanze da letto, scampoli di salotto, vedute dal balcone o angoli di libreria, è servito a farci sentire meno soli, e a mettere in scena una versione di noi, a dire: ci sono, interagisco, annuncio, condivido, eccomi.

Se guardavo una torta fatta in casa, la pasta ammassata a mano, mi dicevo che dovevo cucinare di più invece d’accontentarmi di riscaldare. Quando spiavo i libri tutti in fila sugli scaffali degli altri, mi chiedevo se non fosse il caso di sistemare anche i miei, in ordine alfabetico, di editore, di grandezza. Donne in chignon sul tappeto, fasciate da tute aderenti, donne che si sottopongono a (lunghe?) sedute di fitness. E possibile che io non abbia mai aperto l’applicazione – voluta, pagata – per fare yoga? Servono anche a questo gli archivi digitali degli altri, a conoscere nel confronto qualcosa di noi. Sono pigra? Imparerò mai a cucinare?

L’avvento della fotografia istituisce una storia di sguardi, dunque. I social, la cronaca di un confronto. Che poi sia falsato dall’inventiva con cui esponiamo noi stessi, poco importa. Interessante è scoprire nella luce che abbellisce, snellisce, che ringiovanisce, nell’angolatura con cui tagliamo fuori ciò che non vogliamo mostrare, una storia, abbiamo bisogno degli altri, di essere guardati dagli altri: sono ancora qui, prendimi.

Osservando una foto non possiamo sapere che questo: ciò che vedo è stato. Non quanto la foto sia aderente alla realtà, quindi. Le foto non approfondiscono, sono oggetti piatti, contingenti, non costruiscono nulla se non dentro di noi. Sono attestati, questo sì. Un po’ come i sogni in cui non è importante il luogo ma la testimonianza di una presenza, esserci.

Torna in questi giorni al Palazzo delle Esposizioni, la Quadriennale d’arte 2020. La mostra s’intitola: Fuori. Per i curatori, un invito a uscire fuori dagli schemi, dal conformismo di posizioni poco eccentriche, fuori dal centro, un invito ad adottare sguardi obliqui sulle cose. Oppure più semplicemente, di questi tempi in cui il poco è già molto, fuori di casa, fuori tempo, fuori luogo.

Nella mostra, l’artista Giulia Crispiani presenta un lavoro pensato durante l’emergenza sanitaria, mentre noi si era a casa a collezionare il mondo collezionando foto. Nel confinamento, Crispiani ha scritto una lunga lettera che è sfogo, manifesto, urlo, sussurro, “tatuami poesie d’amore, coccia, roccia, radice, radice, ecc. / Mi manca il mondo, I’ll see you in a new world” e l’ha fotografata e spedita a sessanta destinatari sconosciuti. Poi l’ha stampata su tremila cartoni della pizza, distribuiti in pizzerie di Roma che effettuano consegne a domicilio. Nel mondo chiuso ridotto a foto di case e cose d’altri, alcuni sconosciuti sono stati raggiunti da queste sue parole inattese. L’unico sistema di comunicazione possibile? Un cartone della pizza. Il lavoro di Crispiani s’intitola: Incontri in luoghi straordinari.

Osservando i cartoni della pizza messi al centro di una stanza del museo, come un totem, mi sono detta: ciò che, anche nella distanza, resta uguale a se stesso è il convergere in un luogo comune. Fisico, immateriale, voluto, giunto per caso, qualsiasi esso sia. Ciò di cui abbiamo sempre bisogno è il convergere, ancora, e soffermarsi.