Medusa che tiene in mano la testa decapitata di Perseo: ecco cosa mostra la controversa scultura, alta due metri, eretta a New York davanti al tribunale dove è stato condannato Harvey Weinstein. Un progetto realizzato in collaborazione con NYC Parks, che sarà visibile fino al 30 aprile 2021. L’opera è dell’artista argentino, di origini italiane, Luciano Garbati, e dalla sua collocazione è stata al centro di polemiche e durissimi giudizi che non hanno riguardato tanto la sua qualità artistica, quanto le letture simboliche che porta con sé. Rifacendosi a un mito greco, già di per sé denso di significati come solo la narrazione antica sa essere, la scultura fa un ulteriore balzo concettuale poiché si presenta come un capovolgimento del mito stesso.
È facile intuire come questa Medusa vittoriosa su Perseo sia stata vista come un simbolo delle conquiste del movimento #metoo, ma nei giorni della collocazione della statua a New York è stata accusata di non esserne all’altezza per varie ragioni: perché rappresenta una donna bianca, mentre il #metoo è partito dalla denuncia di una donna nera; perché Medusa è longilinea, bella e depilata, quindi asseconderebbe dei canoni di bellezza maschili; perché è stata realizzata da un uomo, semplicemente. In un impeto filologico c’è chi ha voluto far notare che per rappresentare il #metoo Medusa avrebbe dovuto decapitare il suo stupratore Poseidone, non Perseo. La scultura è stata insomma riempita di senso e di letture, strumentalizzata in alcuni casi, con una serie di fraintendimenti forse non del tutto innocenti. Ma soprattutto: monologhi. Critiche senza contraddittorio.
Nel desiderio allora di ascoltare la voce dell’artista in proposito, ho avviato una ricerca certosina per poterlo raggiungere. A dirla tutta, ho utilizzato i recapiti sul suo sito internet e in pochi minuti ho concordato un’intervista confrontandomi direttamente con lui. Garbati è stato cortese e ben disposto a rispondere alle mie domande e si è detto sorpreso anche lui per il modo in cui la scultura è stata trattata: “Si sono scritte molte cose, alcune non accurate e anche lesive: si è parlato di commissione da parte del #metoo, mentre la scultura è stata creata nel 2008, quando il movimento ancora non esisteva”.
Partiamo dall’inizio allora: come nasce quest’opera e perché? È un capovolgimento del mito, come si è detto, in un’ottica vendicativa?
“Avevo in testa il mito, ma non nelle rappresentazioni trionfali a cui eravamo abituati. Sentivo di voler mettere a fuoco il personaggio di Medusa. Rileggendo il mito come descritto da Ovidio ho realizzato chiaramente come dal punto di vista di Medusa fosse una tragedia. Per questo ho pensato subito di capovolgere la storia, ma non solo mostrando una Medusa che salva la propria vita dopo la lotta con Perseo e trionfa sull’eroe. La sfida per me era mostrare una Medusa che porta in sé i segni della propria tragedia, nello sguardo, nel corpo, nella gestualità” risponde l’artista.
Osservando la scultura infatti si nota una grande differenza rispetto a quella di Benvenuto Cellini a cui è accostata come esercizio manieristico (in casi più cattivi, come esercizio narcisistico). Se nel Cellini l’eroe Perseo solleva la testa di Medusa e tiene ancora la spada alta, come una minaccia, la Medusa di Garbati ha le braccia abbandonate lungo il corpo, la spada punta verso il basso, quasi in segno di resa. Lo sguardo però è determinato, intenso, stanco ma teso, e la stessa tensione si rileva nella muscolatura del corpo. Avrà anche decapitato Perseo, ma non è il trionfo della vendetta che sta mostrando questa scultura, né un vero e proprio capovolgimento del mito. “Io non ho mai pensato a questa scultura come un simbolo di vendetta e mi dispiace che venga colta in questo modo. Per me non c’è vendetta in questo personaggio, c’è tragedia. E c’è la volontà e il desiderio di continuare a vivere. Il Perseo del Cellini e del Canova alza la testa per mostrare la propria vittoria. Lei la testa la tiene da un lato, in basso, così come la spada. È il segno della volontà di non continuare la lotta, mentre nello sguardo c’è sempre la determinazione di salvare e difendere la propria vita. È qui la tensione tragica, non tanto nella vendetta” commenta Garbati.
Ascoltando la storia raccontata così, non posso fare a meno di pensare a una frase della scrittrice femminista Audre Lorde: “Gli strumenti del maestro non smantelleranno mai la casa del maestro. Potrebbero permetterci di batterlo temporaneamente al suo stesso gioco, ma non ci consentiranno mai di realizzare un cambiamento reale”. Questa Medusa possiede già la consapevolezza delle parole di Lorde e, se proprio vogliamo investirla di un’istanza femminista, è a questo punto della ricerca che ci racconta di essere arrivata con lo sguardo e con la resa delle armi. Non la soddisfa il risarcimento, vuole altro. Forse la parità. Resta il fatto che va distinto, da un certo momento in poi, il cammino autonomo dell’opera rispetto alle intenzioni dell’autore.
E infatti è lo stesso Garbati a parlarne, quando gli pongo la domanda successiva. Non si può fare a meno di notare che le fattezze di Perseo sono le stesse di Garbati. Ripensando ad Artemisia Gentileschi, che ribalta la sua storia di vittima dando il proprio volto alla Giuditta che decapita Oloferne, a sua volta raffigurato con il volto del suo stupratore, chiedo a Garbati se abbia fatto la stessa cosa. Se abbia voluto ribaltare la realtà ponendosi giù dall’altare dei trionfanti, in quanto maschio in una società patriarcale: “Si possono dare letture psicanalitiche nell’arte, si fa continuamente. Anche se non mi sono mai sentito un maschio trionfante, l’esito della scultura dal 2008 a oggi mi ha permesso di fare un certo percorso, di pormi alcune domande e capire alcuni problemi” osserva l’artista, aggiungendo poi: “Oggi so di essere privilegiato come maschio bianco, so di essere un prodotto della cultura patriarcale. Da tempo penso che corriamo tutti il rischio di essere reazionari senza nemmeno accorgercene, se non siamo capaci di porre domande sulla nostra concezione del mondo e scegliere ciò che ci rappresenta. L’arte offre la possibilità di trascendere i propri limiti, la propria identità”.
E a questo punto resta una cosa da chiedere: dato che la scelta dell’opera è stata criticata proprio in quanto prodotta da un maschio e rispecchiante la visione maschile della donna, cosa vorrebbe rispondere a chi condanna la conquista di questo spazio da parte di un uomo? “Non è l’artista maschio che ha conquistato quello spazio, è l’opera che lo ha conquistato. Ho ricevuto molti messaggi , di donne soprattutto, che si sono identificate nell’opera, trovando un simbolo di giustizia. È l’opera che ha parlato loro”.
Mi mostra alcuni di questi messaggi, proteggendo sempre l’identità dei mittenti: una ragazza sopravvissuta a un abuso sessuale gli chiede il permesso di farne un tatuaggio. Una testimone del processo a Weinstein lo ringrazia. Una donna argentina di 46 anni gli racconta di essere stata stuprata a 17 anni e scrive: “La tua scultura rende visibili gli invisibili come me”. Un avvocato che difende i bambini vittime di abuso racconta della sua ricerca di simboli per aiutare i bambini a comprendere il potere che risiede nelle loro voci, e lo ringrazia per il suo lavoro e per l’effetto che sortisce in questo senso.
Davvero dunque dobbiamo rifiutare l’alleanza di qualcuno solo perché maschio? Anche quando è evidente la forza del messaggio potenziante che porta? “Se vogliamo cambiare questa società non c’è modo di farlo se non siamo assieme, se il percorso non viene fatto assieme. Io come maschio sento che devo accompagnare, essere accanto, non solo come individuo ma anche nel coinvolgere altri maschi in questo atteggiamento. È impensabile un cambiamento se non è agito da più persone possibile” commenta Garbati.
Nella rabbia iconoclasta che si è scagliata contro questa Medusa, Karen Attiah del Washington Post ha scritto che in realtà Atena non avrebbe punito Medusa trasformandola in un mostro, ma l’avrebbe potenziata (empower her) permettendole di non essere più stuprata. Qual è allora il messaggio davvero inclusivo? La potente solitudine del mostro che utilizza la debolezza dello sguardo maschile per annientarlo, o la volontà di un uomo di accompagnare il mostro a rendere visibile la tragedia per ritrovare la propria forza?