Non ci siamo ancora arrivati, certo che no, ma a chi allunga lo sguardo per vedere se il mondo post-covid sarà diverso da quello pre-covid comincia ad apparire chiaro che il cambiamento è improbabile. Eppure, quando ci siamo fermati tutti all’improvviso abbiamo sperato intensamente che il sacrificio comportasse un premio evolutivo: che fosse una sosta dolorosa e costosa che ci avrebbe permesso di ripartire migliori. Che aver intravisto una fine ci avrebbe consentito di riposizionare più in alto alcuni valori umani, che sapere che siamo tutti uguali nella cattiva sorte ci avrebbe ricordato la nostra fratellanza, che dipendere dalla cura degli altri ci avrebbe fatto rivalutare l’aspetto sociale e vulnerabile della nostra specie, e infine che avremmo anche potuto rinegoziare i termini della nostra produttività, ricollocandoci in un universo di senso aggiornato rispetto a quel che sentiamo veramente di essere.
Così funzionano le transizioni: faticosissime nella misura in cui ci obbligano a ricominciare ad imparare, a guardare con nuova attenzione noi stessi e il mondo per ridefinirci, ma al tempo stesso opportunità uniche per ritrovarci, perché probabilmente eravamo già cambiati da tempo, ed era il sistema a non averlo registrato.
E invece no. Possiamo vederlo a occhio nudo, il sistema che prende il sopravvento e ci ripropone, con ineluttabile efficacia, vecchie foto di noi stessi, del nostro lavoro, dei nostri obiettivi, del nostro senso.
E’ un elastico che tira, e noi siamo anche stanchi, fiaccati da mesi di incertezza e sovraccarico, e tutto sommato tornare indietro è rassicurante.
Che cosa possiamo fare, invece, per non perdere questa opportunità? Ricette ce ne sono? Qualche risposta ce la dà proprio la scienza che studia le transizioni e che, nelle parole del presidente della Società Italiana di Psicologia del Lavoro e dell’Organizzazione, il professor Pier Giovanni Bresciani, le definisce veri e propri “compiti di sviluppo”.
Possiamo, per cominciare, rallentare – anche fino a fermarci, se è necessario. Siamo nella fase della transizione che la psicologia definisce “zona neutra”: abbiamo lasciato le terre note e non abbiamo una nuova mappa per navigare queste. Ma, anche in assenza di una mappa, possiamo navigare: senza però accelerare, come ci suggerirebbe di fare la sirena del ritorno, alla ricerca frettolosa del prossimo approdo.
“Stare” nell’incertezza ci fa sentire a disagio, e il disagio è una condizione preziosa per l’apprendimento: ci segnala che abbiamo bisogno di qualcosa di nuovo, ci dà le risorse per cercarlo. Possiamo rallentare, quindi, e darci l’opportunità per sperimentare nuove formule e nuove mappe: non occorre avere sempre una meta, sempre un obiettivo.
Possiamo continuare a esercitare il muscolo che ci consente di “vedere di più”. Lo abbiamo fatto in questi mesi, che ci hanno obbligati a guardare in modo nuovo alle cose familiari: dallo spazio in cui lavoriamo e viviamo ai nostri familiari, così improvvisamente vicini e interconnessi da dover inventare confini per capire dove finisce e inizia l’una e l’altra cosa; ai colleghi e clienti di cui abbiamo imparato a intuire tutto ciò che andava oltre le parole: quel 70% di comunicazione che non passa attraverso schermi a due dimensioni. Ecco, possiamo provare a non lasciare che vada persa quella capacità così preziosa di andare oltre e cercare segnali nuovi nell’ambiente intorno a noi: ci dà infatti molto di più da comprendere e processare – ed è quindi faticosa da gestire – ma al tempo stesso mette a nostra disposizione un mondo molto più vasto e interessante di quello che vediamo nei media e sui social.
Possiamo, infine, coltivare la disponibilità ad apprendere: continuare a osservare i segnali con l’intento di chi vuole comprendere perché non ha tutto chiaro, e continuare a collegarli a chi siamo, aggiornando la nostra immagine di noi stessi, disancorandola da un ideale definito da altri per noi. L’onda d’urto di una realtà imprevista ci libera infatti da modelli che non funzionavano già da un po’: pensiamo alla “mamma perfetta” o all’“uomo forte”, pensiamo alla leadership autoritaria e al potenziale che ci lasciamo attribuire dagli altri – sono immagini che non reggono all’impatto di questa realtà, ma che avevano esaurito la loro utilità già da tempo.
Possiamo quindi proteggere da un ritorno al passato questa indole meravigliosa della nostra specie umana: questa capacità di apprendere, modificare modelli mentali, evolvere, guardarci intorno con meraviglia e nutrire il nostro senso della possibilità.
E’ un momento – ma dura solo un momento – in cui possiamo liberarci da schemi che non ci contenevano più e fare delle scelte. Non a caso, la parola crisi vuol dire proprio “scelta”.