Ci siamo. Lo shock poteva arrivare da innumerevoli direzioni. E poteva essere di qualsiasi genere, di tipo ambientale, economico, sociale, sanitario, ecc. Non avrebbe fatto differenza, tanto ormai – per chi non se ne fosse ancora accorto – tutto è connesso. Come si ricorda nel TG del Natale 1969, riemerso in questi giorni dall’archivio dell’Istituto Luce “Quando Mao starnuta, il mondo si ammala”, dice un proverbio inglese, piuttosto arguto. Solo che allora l’epidemia di influenza ci ha messo 18 mesi ad arrivare in Italia da Hong Kong, dove era scoppiata nel luglio del 1968.
Oggi sappiamo di vivere in un mondo accelerato, che l’evoluzione esponenziale della tecnologia ha reso sempre più fluido e interconnesso. Questo significa non avere più tempo per arginare qualsiasi genere di minaccia. Una volta che si è verificata, ne veniamo travolti praticamente in tempo reale. Bisogna pensarci prima. Molto prima. E le aziende dovrebbero farne una priorità di governance. A inizio d’anno, il Global Risk Report 2020 pubblicato appena prima del World Economic Forum di gennaio, ha segnalato nella top five dei rischi gloibali: eventi meteorologici estremi, fallimento nel mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici, grandi catastrofi naturali, grave perdita di biodiversità e collasso dell’ecosistema, danni ambientali e disastri causati dall’uomo.
Potremmo interrogarci a lungo se l’epidemia da coronavrius rientra in una di queste categorie o no, ma – al momento – poco importa. Il punto è che l’emergenza ha reso evidente quanto messo a fuoco dalla prima edizione del World Protection Forum, nato su iniziativa di Kelony, Risk-Rating agency, che si è svolto a Padova negli stessi giorni di Davos: primo, il Rischio è il comune denominatore del futuro dell’umanità; secondo, essere protetti è un diritto fondamentale dell’essere umano. Di conseguenza, riformulare i sistemi e gli indici di misurazione del valore di un’azienda, oggi ancora totalmente basati sulla performance economica, risulta urgente. E’ questo il senso del Risk Rating Report presentato in quell’occasione, che ha misurato, secondo un algoritmo inedito, una serie di aziende in funzione della capacità di prevenire in modo sistemico tutti i rischi a cui sono esposte e, quindi, del grado di business continuity che riescono a garantire.
Di fatto, si tratta di accelerare e fare un salto di qualità rispetto a quanto introdotto dalla Direttiva europea sulle cosiddette Non Financial Information, che prevede l’obbligo per le società quotate, le banche, le assicurazioni e tutte quelle che emettono titoli di integrare il bilancio con informazioni non finanziarie, quali quelle relative all’impatto ambientale, sociale e di governance. Informazioni – e azioni – finora considerate intangibili che diventeranno materia di analisi e valutazione del valore di un’azienda per gli investitori. Il messaggio è chiaro: le uniche aziende che in futuro potranno attrarre investitori sono quelle che prenderanno sul serio la sostenibilità e cresceranno con un’ottica di lungo periodo.
E cosa c’è di più sostenibile di garantire il proseguo delle attività lavorative in modo flessibile e in sicurezza, al verificarsi di qualsiasi evenienza? In situazioni di emergenza, come quella che stiamo vivendo, diventa una questione di sopravvivenza. Le organizzazioni, che hanno già abbracciato nuovi modelli organizzativi, sono straordinariamente avvantaggiate.
A molti sfugge, però, che non si tratta di attivare uno strumento come il desueto – ma ahimè ancora utilizzato – telelavoro o il più evoluto smart working, quanto piuttosto di aver finalmente operato un salto di cultura del lavoro, di cui si parla da 20 anni. E che la digital transformation ha reso ancor più necessario e urgente.
Per rispondere alla progressiva accelerazione e interconnessione dei mercati, è chiaro che servono nuovi modelli manageriali, tesi ad usare tutta l’intelligenza collettiva dentro e fuori l’aziende, ad accorciare i processi decisionali, a rispondere il più velocemente possibile alle sollecitazione dei consumatori. Un sistema del genere impone un modo di lavorare collaborativo, basato sulla fiducia tra le persone, su un buon grado di autonomia e responsabilizzazione dei lavoratori a tutti i livelli e, quindi, sull’esercizio di una leadership diffusa, non più gerarchica.
L’epoca del controllo è finita! Come si può chiedere alle persone di essere open mind, innovative e flessibili, se le costringiamo a osservare rituali spesso insensati, muoversi tra rigide regole e richieste di autorizzazioni per fare qualsiasi cosa?
Ne abbiamo parlato in diverse occasioni, proprio qui, su queste colonne digitali. Dal movimento globale delle aziende liberate, che mostra come trasformare i luoghi di lavoro, attraverso la de-burocratizzazione e e ri-umanizzazzione delle relazioni, sostituendo il controllo e la sfiducia con l’uguaglianza e l’equità di trattamento. All’identificazione del modello più evoluto di organizzazione, identificato da Frederic Laloux nella “Teal”, basato su self-management, wholness ed evolutionary purpose.
Dalla teoria e pratica delle organizzazioni positive, che fanno tesoro delle scoperte neuroscientifiche dei tre cervelli in nostro possesso – nella testa, nel cervello e nel cuore – per creare ambienti lavorativi in cui le persone possono dare espressione al loro pieno potenziale, una delle condizioni essenziali della felicità, da cui dipende la performance. Sino al pensiero rivoluzionario di Christina Boiron, a capo del grippo mondiale nel settore dell’omeopatia, che invita a sostituire il management by objectives e il sistema di massimizzazione del rendimento degli Mbo, con un più intelligente management by project. Perché il progetto è flessibile ed evolutivo, libera dagli interessi personalistici e unisce tutti gli stakeholder in un’unica direzione, in uno scopo ben più alto del solo profitto.
Che altro c’è da dire?