Secondo un detto popolare, del maiale non si butta via niente. Magari non è simpatico pensare in questi termini, ma va riconosciuta all’animale una versatilità che lo rende ancora più appetitoso, economicamente parlando, in un’ottica di basso costo e alta resa.
Sappiamo però che il nostro modello economico va rivisto, in un’ottica ecologica in senso lato: dobbiamo trovare nuovi modi non solo di alimentarci, ma anche di consumare, di produrre energia, nuovi materiali, nuove risorse possibilmente rinnovabili e che non impoveriscano ulteriormente il pianeta che ci ospita. La sfida è così grande che è servita una bambina per mostrarne l’urgenza. Greta Thunberg, nel suo celebre discorso di Katowice nel 2018, ha detto: “Se le soluzioni sono impossibili da trovare all’interno di questo sistema significa che dobbiamo cambiare il sistema.” E come? Da dove partire per cambiare il sistema? Per esempio, trovando un maiale vegetale, la cui coltivazione sia a basso impatto ambientale, e il cui uso sia non solo alimentare ma persino industriale. La canapa.
Che la canapa sia il maiale vegetale, è un detto popolare altrettanto diffuso, forse da prima ancora di scoprirne gli usi possibili più recenti e impensabili. Anche se il suo nome è indissolubilmente legato alla controversa locuzione “droghe leggere”, va sottolineato che alcune delle varietà botaniche di questa pianta non hanno proprio niente a che vedere con l’uso ricreativo in questione.
Generalizzando molto, possiamo dire che la Canapa Sativa, la varietà più diffusa, può essere suddivisa in due sottospecie differenti: l’una contiene alte concentrazioni di THC, la sostanza psicotropa; l’altra ne è priva, ed è questa la varietà che incontra l’industria da un lato e la medicina dall’altro. Dai fiori di questa pianta si ricava infatti il CBD, una sostanza preziosa per le sue proprietà rilassanti e calmanti (attenzione: non allucinogene), sia in caso di stress e ansia, sia in caso di dolori cronici.
C’è di più. Analizzando l’intera filiera della canapa, si scopre che non c’è una produzione di rifiuti ad alto impatto ambientale, anzi: la sua coltivazione contribuisce ad abbattere le emissioni di gas serra, realizzando contemporaneamente un processo di fitobonifica, poiché migliora la fertilità dei suoli, e ha un ruolo di diserbante naturale.
Perchè quindi non ci stiamo dedicando in modo più massivo alla coltivazione della canapa?
In realtà secondo i numeri presentati al Seeds&chips 2018 di Milano da Coldiretti, il trend della coltivazione della canapa in Italia è decisamente in crescita. Dai 400 ettari del 2013, si sono stimati nel 2018 quasi 4000 ettari coltivati a canapa nelle campagne italiane, in particolare in Puglia, Piemonte, Veneto, Basilicata, ma anche in Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna. Siamo ancora lontani dai fasti di un passato piuttosto recente, se consideriamo che fino agli anni Quaranta si stima che l’Italia tenesse testa ai maggiori produttori con quasi 100mila ettari coltivati a canapa.
Con la crescita delle coltivazioni, si moltiplicano anche le esperienze innovative. Nel settore delle bioplastiche, ad esempio, la startup siciliana Kanèsis ha creato l’Hemp filament per stampa 3D, ottenuto da scarti della lavorazione della canapa industriale aggiunti ad una matrice di PLA, polimero termoplastico derivante da zuccheri naturali. È un materiale biodegradabile e compostabile, e in rapporto al suo competitor chimico, l’ABS, ha una maggiore coesione a livello molecolare e una resistenza alle deformazioni superiore del 30% rispetto al semplice PLA.
Aumentano anche le esperienze nel settore della bioedilizia: un solo esempio, la startup lecchese Equilibrium ha creato Natural Beton, biocomposito di canapa e calce, un isolante che contribuisce tra le altre cose ad abbattere i consumi energetici.
Fuori dall’Italia, un team di ricerca della University of Alberta ha presentato uno studio su un nanomateriale ricavabile dagli scarti della lavorazione industriale della canapa. Questo materiale possiederebbe caratteristiche simili al grafene, utilizzabile nella creazione di pannelli solari, batterie, elettrodi, gadget elettronici. Sarà probabilmente l’erede del silicio e del litio, ma a quanto pare la canapa è ancora meglio, con costi di produzione minori.
Fantascienza? Nel 1941 Henry Ford, affamato e folle ante litteram, creò la Hemp Body Car, un prototipo di auto in bioplastica derivata dalla canapa e alimentata con etanolo di canapa. Oggi possiamo ritrovare composti in canapa di vario tipo in auto prodotte da Audi, BMW, Ford, GM, Chrysler, Mercedes, Lotus e Honda, tra gli altri. Sarà utile quindi continuare a parlare di questo dono della natura, contribuire a liberarlo culturalmente da pregiudizi insensati, perché nella sua incredibile versatilità risiede forse la possibilità di un cambiamento di sistema che può liberarci dalle contraddizioni che oggi ci hanno portato all’allarme climatico.