Il “codice rosso” per chi subisce violenza e due novità sui congedi parentali: la possibilità, per le future madri, di lavorare fino al nono mese di gravidanza e l’aumento da quattro a cinque giorni del congedo obbligatorio per i neopapà. Insieme all’aumento a 1.500 euro l’anno del bonus “asilo nido” per le famiglie nel corso degli anni 2019-2021, che poi dovrebbe ritornare a mille euro dal 2022, e alla proroga di “opzione donna”, il sistema che permette alle lavoratrici di ottenere la pensione di anzianità con requisiti anagrafici più favorevoli rispetto a quelli in vigore, ma al prezzo di decurtazioni anche molto pesanti. È magrissimo e controverso il bottino per le donne a sei mesi dall’insediamento del Governo gialloverde. E ancora incombono provvedimenti giudicati lesivi per le madri, come la proposta di riforma dell’affido condiviso targata Pillon e le altre simili. D’altronde, il contratto di governo non brilla certo per l’attenzione alla parità di genere.
Finora, l’unico provvedimento esplicitamente dedicato alle donne è il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 28 novembre, ribattezzato “codice rosso” dai ministri proponenti: il Guardasigilli Alfonso Bonafede e la ministra della Pa Giulia Bongiorno. Cinque articoli che modificano il Codice di procedura penale per accelerare i tempi della giustizia sia nell’acquisizione e nell’iscrizione delle notizie di reato sia nello svolgimento delle indagini preliminari. Obiettivo: evitare che ritardi della macchina giudiziaria «possano pregiudicare la tempestività di interventi, cautelari o di prevenzione, a tutela della vittima di reati di maltrattamenti, violenza sessuale, atti persecutori e di lesioni aggravate in quanto commesse in contesti familiari o nell’ambito di relazioni di convivenza».
Se pure è certamente utile scongiurare stasi fatali, molte associazioni impegnate da tempo sul fronte della violenza contro le donne hanno accolto con freddezza le nuove norme, che comunque dovranno passare al vaglio delle commissioni parlamentari competenti. In molti e in molte sono convinti che davanti ai «numeri da brividi» (parole del vicepremier Luigi Di Maio) che la cronaca ci consegna – un femminicidio ogni tre giorni, e in un caso su due da parte di un uomo già denunciato – non sono sufficienti misure di tipo securitario. «Non si fa propaganda sulla pelle delle donne – ha detto al Sole 24 Ore l’avvocata Maria Luisa Manente, responsabile dell’ufficio legale della Ong Differenza Donna. «Le leggi ci sono, il problema è la loro attuazione e un contesto sociale che ancora penalizza le donne che si ribellano al volere maschile, giustifica i maltrattanti, limita la libertà. In questa direzione va anche il Ddl Pillon».
Il piano nazionale antiviolenza, istituito dal Governo Renzi nel 2015, dovrebbe poter contare nel 2019 su 33 milioni di euro, il 2,7% in meno rispetto al 2018. A coordinarlo è il sottosegretario alle Pari opportunità, Vincenzo Spadafora, che ad Alley Oop ha spiegato come si stia lavorando su tre fronti: prevedere un fondo ad hoc per le donne vittime di violenza, che garantisca loro un effettivo ed equo sostegno economico; incentivare la creazione di strutture di accoglienza per il pronto intervento, con un primo supporto legale, in tutte le Regioni; mappare (se ne stanno occupando il Dipartimento Pari opportunità, d’intesa con Istat e Cnr) tutti i centri antiviolenza presenti in Italia. Anche per capire se abrogare la norma della legge 119/2013 sul femminicidio che riserva il 33% dei fondi all’istituzione di nuove strutture. Norma invisa a tanti centri già attivi, che lamentano la scarsità di risorse per poter continuare a lavorare.
Ha fatto molto discutere la bocciatura in commissione Bilancio alla Camera dell’emendamento alla manovra che proponeva l’istituzione di un fondo da 10 milioni di euro per gli orfani dei femminicidi. «Una bastardata», aveva protestato l’azzurra Mara Carfagna, ex ministra alle Pari opportunità. La maggioranza ha promesso di trovare una soluzione condivisa in Senato: nel maxiemendamento del Governo presentato in extremis il 21 dicembre è comparso, ma vale un terzo: 3 milioni. Niente da fare, invece, per la proposta di Iva agevolata (al 5% anziché al 22%) per pannolini e assorbenti avanzata dal M5S: la misura non è passata. Eppure avrebbe aiutato non poco le donne e il loro portafoglio, per cui questi beni sono di prima necessità.
Alla manovra è affidato anche il destino della norma sui congedi per i padri (strappare un giorno in più è sempre una buona notizia, nonostante resti la distanza siderale con i sistemi dei Paesi del Nord Europa) e di quella sulla maternità, molto contestata. È un emendamento leghista alla legge di bilancio, approvato in commissione alla Camera, a dare alle donne la facoltà di restare a lavorare fino a pochi giorni prima del parto, naturalmente con il via libera del medico, per usufruire dopo la nascita dei cinque mesi di astensione obbligatoria. La Cgil è insorta, sostenendo che la norma non tutela la salute e la libertà delle donne e avvertendo del pericolo che a rimetterci siano soprattutto le lavoratrici più precarie. Senza contare i dubbi di chi ritiene che i datori di lavoro possano approfittarsene condizionando la scelta delle lavoratrici.
L’aumento del bonus asili nido è ovviamente positivo, ma niente affatto risolutivo. Nel contratto di governo si parlava di “sostegno per servizi di asilo nido in forma gratuita a favore delle famiglie italiane” (l’esclusione delle famiglie straniere aveva già suscitato forti polemiche), ma evidentemente non sono state trovate risorse sufficienti. E si è ripiegato sulla politica dei bonus, tanto osteggiata dall’attuale maggioranza quando era all’opposizione. Rivisitata anche la carta famiglia per i nuclei con più di tre figli: si passa da un’età di 18 anni a 26, ma anche qui dagli sconti sono stati esclusi gli immigrati.
Che la parità non sia una priorità di questo Esecutivo, d’altronde, lo dimostrano i numeri della presenza femminile nelle stanze dei bottoni. Nonostante sia la legislatura più femminile della storia (35,7% di donne alla Camera e 34,5% al Senato), le donne sono appena 11 su 64 componenti della squadra di governo e sottogoverno: appena il 17,19%, come certifica il dossier “Trova l’intrusa” di Openpolis in collaborazione con Agi. Si tratta della percentuale più bassa dal governo Letta a oggi. Le ministre sono cinque, di cui tre senza portafoglio. I capigruppo di Lega e M5S sono uomini in entrambi i rami del Parlamento. I leader politici manco a dirlo. Unica eccezione degna di nota è Forza Italia, che non solo annovera la prima presidente del Senato nella storia della Repubblica, Elisabetta Alberti Casellati, ma ha scelto due donne come presidenti dei gruppi parlamentari: Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini.
Le nomine fin qui decise dalla maggioranza sono quasi tutte al maschile. Vale per i vertici di Rai, Ferrovie, Cassa depositi e prestiti. Così come per l’elezione dei consiglieri laici del Csm e dei Consigli di presidenza della giustizia amministrativa, tributaria e della Corte dei conti. Ventuno posti, ventuno uomini. «In barba a qualsiasi principio costituzionale», erano insorte oltre 60 costituzionaliste. Ma se la politica rimane una “questione di uomini e tra uomini” come si può pretendere che le politiche e le prassi cambino verso? Nei prossimi mesi si capirà meglio l’orientamento del Governo anche su temi più sensibili. Le dichiarazioni tranchant del ministro della Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana, contrario ad aborto e coppie gay, avevano scatenato una levata di scudi da parte dello stesso Spadafora. Che si era schierato anche per una modifica sostanziale del Ddl Pillon, per ora ancora fermo in commissione Giustizia alla Camera.
Il confronto racconta bene le due anime del governo: quella verde, percorsa da tentazioni più che conservatrici, e quella gialla, che cerca di arginarle. In mezzo ci sono le donne, che non a caso sono tornate in piazza: il 10 novembre contro il Ddl Pillon e il 24 novembre, in migliaia, contro la violenza maschile.