Cara Alley,
si parla troppo di Welfare femminile e troppo in generale. Le esigenze delle donne cambiano a seconda di “life style/life age”. La vera discriminante per le donne non è “essere donne”, ma diventare madri. E qui scattano meccanismi sociali e psicologici che le sole leggi/regole/KPI aziendali non riescono a risolvere, se non si affronta la CULTURA aziendale e familiare. Quando la donna diventa madre deve dimostrare quello che agli uomini (padri) si dà per scontato (lavorare fino a tardi, viaggiare, focus sul lavoro..). Veniamo guardate con dubbio, sospetto e spesso anche pietà. In questo frangente la donna dovrebbe essere forte, determinata, rispondere con un sorriso quando le viene chiesto “ma come fai con un bambino piccolo”? Ma in questo frangente è la stessa donna ad avere mille dubbi, paure, sensi di colpa.
Qui entra in gioco l’elemento psicologico di quella che io chiamo “la sindrome del brutto anatroccolo”: sensi di colpa verso i figli piccoli, frustrazione sul lavoro che toglie tempo, desiderio di non perderlo quel lavoro a cui si sono dedicati tanti anni. Ci si convince di essere “sbagliata” e allora arriva il peggio: la gratitudine per i capi/azienda che “almeno mi lasciano uscire prima o fare la call da casa o mi danno il part-time”., ad esempio E via via di questo passo molte donne purtroppo o lasciano o accettano ruoli inferiori…Si arriva alla “solitudine della maternità”. Difficile a questo punto tornare indietro. Si va avanti per amore dei figli, ma con il rimpianto di quello che “avrei voluto ma non ho potuto” sperando che alle nostre figlie non capiti lo stesso.
Io come donna, madre, manager, ho attraversato tutto questo percorso: ho avuto la fortuna di avere accanto a me una madre che mi ha fatto vedere il “cigno” quando ero nella fase profonda del “brutto anatroccolo”. Con la mia testimonianza ed esperienza vorrei ora andare oltre le ovvietà (ad esempio le soluzioni invocate come part time, smartworking) che sono gocce nell’oceano se non si ribaltano i parametri del welfare maternità.
Parlare solo welfare maternità sul lavoro è limitativo. Sarà sempre “parziale” se non si affronta il tema di “genitorialità”. Perché in base alla mia esperienza in aziende e nelle università, anche i padri vivono un percorso difficile: vorrebbero partecipare ma non sanno come, la cultura/azienda non si aspettano che facciano i mammi, ma anche loro vivono un senso di colpa e di inadeguatezza al ruolo. Bisognerebbe ribaltare i parametri: dall’essere padre al VIVERE la paternità e la GENITORIALITA’.
Noi donne abbiamo il dovere di spezzare questo circolo vizioso, se non lo facciamo noi concretamente nessuno lo farà al nostro posto.
Leggi, agevolazioni fiscali, politiche aziendali possono aiutare, ma èì la CULTURA che deve cambiare in famiglia, nella società e nelle aziende. Ed il cambio culturale inizia parlandone, condividendo le testimonianze come sta facendo Alley Oop. Partiamo da qui nel percorso in salita verso il welfare genitorialità.
Olga Iarussi, ceo South Europe Triumph International