Tornare al lavoro dopo un figlio: la differenza fra madri e padri

In Europa, il tasso di occupazione dei padri di bambini sotto i 6 anni è di 8,2 punti percentuali superiore a quello degli uomini senza figli. Nelle stesse condizioni, le madri registrano tassi di occupazione inferiori di 10,5 punti rispetto alle donne senza figli. Poiché, in media, gli uomini con figli lavorano di più, in genere guadagnano di più. All’opposto, alla nascita del primo figlio, molte lavoratrici passano al part-time. Meno ore corrispondono a meno guadagni ecco allora che il divario retributivo tra i sessi si allarga (ulteriormente).

Riportando le infelici statistiche attuali, la pubblicazione Eige (European Institute for Gender Equality) di settembre dal titolo “Return to the labour market after parental leave: A gender analysis“, conferma la necessità di affrontare la disparità di genere specialmente nelle coppie con figli, considerando livelli multipli e interconnessi: dalla durata e dall’entità dei benefici dei congedi, al cambiamento culturale richiesto e ai benefici di accordi lavorativi più flessibili che possano spingere a una migliore condivisione delle responsabilità, sia economiche che di cura.

Tornare al lavoro dopo la nascita

È risaputo, tornare al lavoro dopo aver avuto un bambino significa qualcosa di molto diverso per le donne o per gli uomini. La “child penalty” è d’altra parte un fenomeno mondiale. Come chiarisce The Child Penalty Atlas, della London School of Economics, sulla base di dati di 134 Paesi: «I nostri risultati sono molto chiari: in quasi tutti i Paesi del pianeta, la nascita del primo figlio ha un impatto ampio e persistente: vede diminuire l’occupazione femminile, mentre quella maschile non ne risente. In nessuna parte del mondo l’effetto si inverte, né gli uomini vedono cambiare la loro traiettoria occupazionale dopo essere diventati padri».

Le numerose differenze tra le varie aree del mondo sono influenzate dalle situazioni culturali specifiche, dalle condizioni di lavoro per le madri e per i padri e dalle barriere finanziarie o dagli accordi che limitano le opzioni a disposizione. Tuttavia, afferma l’Eige, «la maniera in cui è strutturato il congedo parentale può contribuire a migliorare la parità di genere». E «la disponibilità di servizi di assistenza sovvenzionati ha l’impatto più significativo sulla riduzione del divario di genere nell’occupazione».

Padri che vogliono prendersi cura. Madri che vogliono lavorare

Quando parliamo di uguaglianza di genere e la mettiamo in relazione con le responsabilità di cura**, non possiamo negare un certo cambiamento in atto. Negli ultimi anni infatti, tra le altre cose, è aumentato il numero di padri lavoratori che esprimono o proprio richiedono il diritto di svolgere un ruolo più attivo nell’educazione dei figli. Inoltre, la flessibilità, e tutto ciò che comporta in termini di equilibrio tra lavoro e vita privata sia per gli uomini che per le donne, è diventata la parola d’ordine in molti luoghi di lavoro. Per esempio, lo smart working, soprattutto a partire dal 2020, si è trasformato dall’essere introdotto da una manciata di progetti pilota di alcune aziende visionarie in una risorsa importante per attrarre e trattenere i talenti, incrementare la produttività e persino rafforzare la reputazione delle aziende – a prescindere dal fatto che alcuni grandi nomi possano non essere d’accordo.

Ma intanto ancora nel 2024, siamo ben lontani dal raggiungere l’obiettivo dell’uguaglianza di genere (secondo alcuni di questo passo la avremo tra cinque generazioni) né a colmare il divario occupazionale o salariale. Alla base di tutto questo, una grande responsabilità è dovuta alla nascita di un figlio. Come osserva un’altra volta l’Eige, «le donne sono ancora le prime a dedicarsi ai figli, quindi il divario occupazionale si allarga (causa) necessità di cura genitoriale» e, inoltre, una «lunga durata del congedo di solito influisce negativamente sulla carriera e sulla retribuzione di una donna quando torna al lavoro».

Nell’esaminare meglio la situazione, è utile guardare ai numeri. In Europa, il 65% delle madri con almeno un figlio sotto i 12 anni dedica minimo cinque ore al giorno alla cura. Solo il 26% dei padri raggiunge lo stesso livello. Nel 2023, il tasso di occupazione delle donne con almeno un figlio sotto i sei anni è stato inferiore di 10,5 punti rispetto alla quota registrata tera quelle senza figli. Alle stesse condizioni, per gli uomini la percentuale si inverte, con un tasso di occupazione dei padri che sale di 8,5 punti percentuali rispetto a quanti figli non ne hanno.

Poiché gli impegni di accudimento riduce i tempi di lavoro, sono ancora le madri più dei padri a passare a contratti part-time, tanto che lo scorso anno, secondo i dati Eurostat, nell’UE il 32% delle donne occupate con figli lavorava a tempo ridotto, rispetto al 20% delle donne senza figli. Tra i lavoratori, queste percentuali erano rispettivamente del 5% e del 7%. Inoltre, il 26% delle europee tra i 15 e i 64 anni ha dichiarato di essere inattiva a causa delle responsabilità di cura, pur volendo lavorare. Lo hanno indicato solo il 4% degli europei.

Diventare padri: prendere il congedo, o non prendere il congedo?

In questo scenario, gli aspetti positivi sono difficili da trovare. E ancora spesso per la maggior parte le best practice arrivano (e spesso restano) concentrate nei “soliti” luoghi. Come riporta l’OCSE, infatti, il tasso del 26% di padri che prendono il congedo di paternità a livello mondiale è fortemente influenzato dai numeri record dei Paesi nordici.

In generale, anche se oggi più spesso che in passato entrambi i membri di una coppia vogliono essere parte attiva nell’educazione dei figli, rimanendo economicamente indipendenti e contribuendo il più equamente possibile alle necessità della famiglia, le probabilità che ci sia una parità tra i due generi sono ancora molto poche. Non importa se permessi meglio distribuiti, strutture di assistenza più accessibili e disponibili siano chiaramente visti, tra gli altri, come elementi fondamentali nell’influenzare positivamente e in modo concreto la situazione. A prescindere dalle numerose leggi approvate nell’ultimo decennio, la cultura che circonda la paternità limita pesantemente ancora le carriere e la rende una scelta meno attraente da intraprendere.

Nella maggior parte dei casi, comunque, il tempo a disposizione dei padri lavoratori alla nascita di un figlio o di una figlia resta limitato e (in alcuni casi molto) più breve di quello delle madri. Inoltre, il congedo di paternità è in genere meno ben retribuito. E il congedo parentale ancora meno. Secondo i dati Ocse, in genere le indennità per il congedo parentale coprono il 48% della retribuzione precedente di un individuo. Poiché periodi più lunghi di assenza dal lavoro possono danneggiare la carriera di un genitore, i padri spesso sentono la pressione di dover tornare al lavoro. Senza contare poi che, in alcuni casi, si sentono (o effettivamente sono) giudicati dai dirigenti o dai colleghi nel momento in cui approfittano del legittimo periodo di assenza dal lavoro alla nascita di un figlio/a. Questo perché antepongono le esigenze della famiglia al lavoro.

Il cambiamento, dove è necessario

Grazie all’introduzione di pratiche diverse, a una maggiore sensibilizzazione e ai dati che mostrano cosa funziona, qualcosa, seppure ancora molto lentamente, sta cambiando. Almeno a livello di comprensione del tema e di come poter intervenire per affrontarlo. Scrive nero su bianco nella sua analisi l’Eige, «le politiche di congedo parentale si sono dimostrate fondamentali per aiutare i genitori a bilanciare le responsabilità lavorative e familiari». Il ritorno al lavoro, per quanto stressante e impegnativo, «può essere reso più facile attraverso accordi di lavoro flessibili e favorevoli alla famiglia».

Poiché, come già detto, anche la durata modella e rafforza i tradizionali ruoli di genere, «le politiche di congedo possono essere viste come un tentativo di sostenere i diritti dei bambini ad avere tempo e cure con entrambi i genitori». Il tempo, quindi, come elemento centrale. «Una maggiore flessibilità nel congedo parentale può contribuire a ridurre alcune delle tensioni che i genitori possono affrontare quando si assentano dal lavoro. Ad esempio, riducendo l’orario o prendendo un congedo più breve, i genitori possono riuscire a mantenere un reddito costante».

Ancora una volta, come punto di riferimento per le migliori pratiche, possiamo guardare “al nord”. Come ricorda la professoressa Heejung Chung recentemente chiamata a commentare la ricerca del King’s Global Institute for Women’s Leadership sulla penalizzazione della maternità e la qualità del lavoro.

Le nazioni in cui i padri sono impegnati nella cura dei figli in una fase precoce della loro vita, avranno risultati migliori rispetto alla penalizzazione della maternità. Parlo (per esempio) di Danimarca e Svezia. Ma si tratta anche di luoghi in cui ci si rende conto che lavorare 40 o 48 ore alla settimana non è possibile. In Danimarca, ad esempio, la maggior parte dei lavori a tempo pieno si aggira intorno alle 35 o 36 ore settimanali. Ciò significa che generalmente (anche) le madri sono in grado di lavorare full time. E non solo perché i padri sono più coinvolti nella cura dei figli e nei lavori domestici, ma anche perché il tempo pieno non è di 44 o 45 ore settimanali. Non sto dicendo che si (sia raggiunta la parità). Non siamo ancora in condizioni di uguaglianza, ma è molto meglio».

** In questo articolo ci concentriamo sulla cura dei bambini. Tuttavia, gli oneri per gli adulti che si occupano di assistenza e molte delle lacune menzionate, sono simili e spesso sovrapponibili alle esigenze di assistenza a familiari malati o anziani.

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