“La violenza contro le donne nasce dalla sopravvivenza nelle relazioni private del rifiuto della libertà conquistata dalle donne. Un rifiuto antico che si esprime oggi in forme malate. Per questo l’azione di contrasto dovrebbe essere continua, strutturale, non episodica, basata su standard omogenei sul territorio nazionale. La violenza tocca un punto chiave, che riguarda la pienezza della cittadinanza delle donne. Come si fa a discutere di parità salariale, di soffitto di cristallo, di partecipazione femminile alla vita politica, se nella sfera privata la libertà delle donne non è ancora accettata?”.
Fabrizia Giuliani, docente di filosofia del linguaggio e studi di genere all’università La Sapienza di Roma, conosce il valore delle parole, le soppesa, le sceglie con cura. E affida ad Alley Oop il suo grido di dolore dopo l’ennesimo femminicidio efferato: quello di Michelle Causo, uccisa a Roma a coltellate a soli 17 anni. Il sospettato è un coetaneo, che è stato arrestato.
Giuliani parla nella doppia veste di studiosa esperta di questioni di genere e di coordinatrice del Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica, istituito durante il Governo Draghi con l’allora ministra Elena Bonetti e confermato dall’Esecutivo Meloni con la attuale titolare di Famiglia, pari opportunità e natalità, Eugenia Roccella.
Nuovo drammatico femminicidio, nuovo racconto distorto. Perché ogni volta che una donna viene uccisa ci si affanna a scavare nella sua vita alla ricerca di un movente?
La violenza sulle donne è una catena che non si riesce a spezzare. Ogni volta restiamo sgomenti e ogni volta dobbiamo ricordare che i femminicidi colpiscono la coscienza civile del Paese, i suoi valori, la sua capacità di accogliere la libertà delle donne. Quando muore una minorenne, come nel caso di Michelle Causo, gettata come un rifiuto nel cassonetto, il senso di sconfitta è lacerante.
Leggere sui social e sui giornali la solita retorica fatta di frasi e immagini abusate – “barbaro omicidio”, “raptus”, “delitto passionale” – e assistere all’affannosa e disinvolta ricerca di un movente costituisce una mancanza di rispetto inaccettabile. Bisogna ripeterlo fino allo sfinimento: non si tratta di questioni private. La violenza contro le donne, come dimostra il suo drammatico ripetersi, è una questione pubblica e politica. A riconoscerla come tale è stata la Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia con la legge 77/2013.
Un punto di non ritorno?
Sì. La Convenzione non solo afferma che la violenza contro le donne è una lesione dei diritti umani – e ci si potrebbe chiedere perché sia stata necessaria una carta ad hoc per affermarlo – ma la riconduce alla sua matrice originaria: il rapporto tra i sessi, la disuguaglianza che permane, il riconoscimento della libertà delle donne. Per contrastarla, la Convenzione afferma che bisogna agire simultaneamente in tre direzioni: prevenzione, protezione e repressione.
È stato un approdo storico, perché fino a quel momento le culture politiche tradizionali tendevano a mettere queste dimensioni una contro l’altra. Ora i Governi sanno che occorre lavorare allo stesso tempo su tutti i piani. Così l’Italia si è mossa sin dal momento della ratifica, prima con la legge 119/2013 dell’Esecutivo Letta, che ha istituito il Piano nazionale antiviolenza, e poi con tutte le altre. Grazie alla solida cornice di Istanbul, non si è mai tornati indietro. Io giudico positivamente gli interventi normativi approvati in questi anni, anche tenendo conto che il nostro Paese ha fatto grande fatica a riconoscere la matrice della violenza e a combatterla adeguatamente. Basti pensare che il delitto d’onore è stato abolito solo nel 1981 e che lo stupro è stato qualificato come reato contro la persona soltanto dal 1996.
Come si è arrivati all’ultimo disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri dopo il femminicidio di Giulia Tramontano?
Il provvedimento raccoglie alcune misure che erano state predisposte e condivise da tutte le ministre del Governo Draghi, poi incomprensibilmente non varate per tempo, e molte delle osservazioni raccolte nel dossier che come Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica abbiamo presentato alla ministra Roccella.
Nel Cts, assieme a me, siedono Paola Di Nicola, Vittoria Doretti, Alessandra Kustermann, Claudia Segre e Lella Palladino. Voglio sottolineare subito che, accanto alla necessità degli aggiustamenti sul piano penale, abbiamo evidenziato con forza l’esigenza di dare priorità alla prevenzione e alla formazione, perché il deficit di applicazione delle leggi spesso ha a che fare con la sottovalutazione del fenomeno da parte di chi dovrebbe intercettare la violenza. Ecco perché è indispensabile formare i magistrati, le forze dell’ordine, gli operatori sanitari. Senza di loro, lo Stato non può vincere questa battaglia.
Quali sono i punti di forza delle nuove norme?
Sono misure che rispondono a esigenze reali: il rafforzamento della protezione delle vittime, la velocizzazione dei processi, la specializzazione dei giudici, il perseguimento dei maltrattanti, il ristoro anticipato. In particolare, l’estensione dell’ammonimento da parte del questore ai cosiddetti “reati spia”, dalle lesioni agli atti persecutori, è molto importante, così come la parte sul ricorso al braccialetto elettronico, già previsto ma pochissimo utilizzato.
Adesso si prevedono misure più gravi se l’imputato non dà il consenso. Anche la possibilità dell’arresto in flagranza differita è una novità rilevante, perché molto spesso nei casi di violenza contro le donne il materiale documentale, fotografico e video, è prezioso. Penso alle più giovani e alla loro dimestichezza con gli smartphone. Poi, certo, tutto è migliorabile e mi auguro che dal Parlamento arrivino ulteriori contributi e arricchimenti.
Per esempio su quali versanti?
Ancora sulla protezione: 500 metri per il distanziamento dall’abitazione e dai luoghi frequentati abitualmente dalla donna sono insufficienti. Sull’arresto in flagranza differita: le prove di avvenuta violenza per cui si può procedere all’arresto possono essere ampliate, come suggerito dal giudice Fabio Roia proprio su Alley Oop. Si dovrebbe poi riconsiderare la possibilità per il pubblico ministero di applicare il fermo immediato in caso di gravi indizi che facciano temere per l’incolumità della vittima. Era previsto nella proposta firmata dalle ministre del Governo Draghi. I margini per migliorare il testo sono ampi, ma occorre andare velocemente.
E gli investimenti? Le associazioni lamentano l’assenza di fondi…
Tutte le riforme degne di questo nome hanno una dote finanziaria su cui poter contare. In questo caso alcuni capitoli necessitano di assoluto sostegno. Innanzitutto la rete dei centri antiviolenza, che negli anni di totale assenza dello Stato hanno svolto un ruolo di supplenza fondamentale e che per la loro progettazione hanno bisogno di continuità.
Poi la prevenzione: gli investimenti nelle scuole sono cruciali. Educare al rispetto della libertà femminile, condannare la violenza contro le donne in ogni forma dovrebbe essere parte dell’educazione civica già prevista. Non lo è e dovremmo chiederci perché. Va sottratta complicità, tolleranza a una cultura fondata sulla prevaricazione. Partendo dai fondamentali: chiedo ai ministri perché il 1522, il numero gratuito attivo 24 ore su 24 che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking, non appare nelle home page di tutti gli istituti scolastici e di tutte le università. Perché non è presentato e illustrato all’inizio di ogni anno accademico? La formazione è un capitolo decisivo che non riguarda solo le scuole.
Nel Cts lo abbiamo ribadito in ogni modo: senza formare gli operatori – giudici, forze di polizia, personale sanitario – nessuna attività di contrasto alla violenza può essere davvero efficace.
Potremo mai smettere di contare le vittime?
La libertà delle donne ha cambiato faccia alla nostra società e fatto saltare le distinzioni tra sfera pubblica e sfera privata. L’Italia di oggi è un’altra rispetto anche solo a cinquant’anni fa. Ha scritto lo storico Eric Hobsbawm che quella femminile è stata l’unica rivoluzione pacifica e non fallita del Novecento. È vero, ma occorre aggiungere che le reazioni a questa rivoluzione, irreversibile, non sono pacifiche e si portano dietro una lunga scia di sangue. La violenza contro le donne è il lato oscuro della storia, ma si fatica ancora molto a riconoscerlo. Le culture politiche sembrano non attrezzate al contrasto, perché si dividono su vecchie categorie che rimuovono questo dato. Servono lenti nuove e uno sguardo che vada a fondo. Istanbul ci ha messo sulla via giusta. Ne va della cittadinanza delle donne e, in definitiva, della civiltà del Paese.
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