Contributo di Sara De Vido, Università Ca’ Foscari di Venezia, & Lorena Sosa, Università di Utrecht (Paesi Bassi)
Ogni giorno, ogni ora, in tutta Europa, le donne subiscono molteplici forme di violenza. È una violenza che provoca ferite sul corpo e segni indelebili sulla psiche; è una violenza che mette a tacere le donne, le uccide, le cancella dal mondo digitale. I discorsi d’odio contro le donne in quanto donne sono sempre esistiti, ma oggi viaggiano pericolosamente sul web: pochi click per distruggere una vita. La violenza domestica e i femminicidi riempiono le pagine dei giornali e suscitano sgomento, ma siamo davvero consapevoli che questa violenza è culturale, radicata nelle società, che è una forma di discriminazione basata sul genere?
La violenza, soprattutto quella domestica, è in genere condannata, ma non possiamo dire che sia altrettanto ampiamente punita. Lo stigma, unito al timore di non essere ascoltata o creduta, rende le donne riluttanti a denunciare alle autorità la violenza subita. Quando denunciano, le sopravvissute alla violenza cadono talvolta vittime di vittimizzazione secondaria, colpite una seconda volta, attaccate dall’assenza di una cultura sensibile al genere anche in ambito giudiziario. Le statistiche che abbiamo a disposizione in Europa sulla dimensione della violenza di genere nei confronti delle donne si focalizzano quasi sempre solo su alcune forme di violenza, quindi sono parziali e raramente tengono conto dell’intersezione di diverse forme di discriminazione. I dati mostrano tuttavia chiaramente un preoccupante trend a livello europeo, che è peggiorato durante la pandemia.
Già nel 2014, l’Agenzia europea per i diritti fondamentali aveva pubblicato un rapporto in cui dimostrava che una su tre donne in Europa aveva vissuto una qualche forma di attacco fisico e/o sessuale dall’età di 15 anni. Secondo i dati recenti forniti dall’Istituto europeo per la parità di genere, si stima che una su tre donne in Europa abbia vissuto una qualche forma di violenza nel mondo digitale dall’età di 15 anni. In Italia, come è stato riportato nel recente rapporto della Direzione centrale anticrimine della polizia, 89 donne sono vittime di reati di genere ogni giorno, commessi soprattutto da mariti e compagni, nel 34 per cento dei casi; oppure dagli ex, nel 28 per cento dei casi.
Nuove forme di violenza digitale
In uno studio che abbiamo condotto per lo European Equality Law Network, commissionato dalla Commissione europea, in uscita il 25 novembre, con riferimento alla legislazione penale in materia di violenza di genere contro le donne, inclusa quella che abbiamo definito ICT-facilitated violence, ovvero violenza che è facilitata dalle tecnologie della comunicazione e dell’informazione, di 31 Stati europei (i 27 Stati membri dell’Unione europea, più Regno Unito, Norvegia, Liechtenstein e Islanda), abbiamo verificato, anche alla luce della Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, un certo attivismo legislativo sul piano penale negli ultimi anni, che spesso tuttavia non è stato accompagnato da misure di attuazione e di protezione adeguate per le donne vittime di violenza.
Nei Paesi europei, il quadro normativo è solo in parte uniforme. Con riferimento alla violenza facilitata dagli strumenti dell’informazione e della comunicazione, non contemplata espressamente nella Convenzione di Istanbul, il nostro studio ha dimostrato come la dimensione digitale non sia stata adeguatamente presa in considerazione nella legislazione interna. Messaggi d’odio diffusi online, immagini private condivise senza il consenso della persona in esse ritratta, messaggi persistenti con minacce di condotte non volute, sono solo alcuni esempi di come si possa utilizzare la tecnologia per perpetrare la violenza. Un solo Stato in Europa, la Romania, ha una definizione specifica di violenza online inclusa nella legge contro la violenza domestica, mentre gli altri Stati hanno adottato o una specifica legislazione con riferimento ad alcune forme di violenza facilitata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, o hanno incluso la dimensione online quale circostanza aggravante di reati che vengono comunemente commessi offline.
Alcuni comportamenti sono stati recentemente criminalizzati: ad esempio, la diffusione non consensuale di immagini intime, private e/o di natura sessuale, comunemente conosciuto (e incorrettamente definito) come “revenge porn”. Non ha importanza che ci sia stato o meno consenso alla realizzazione dei video o delle immagini, se la diffusione è avvenuta senza consenso l’azione deve essere proibita perché produce un impatto sui diritti delle donne e la loro autonomia. L’uso o la diffusione di immagini intime, private o di natura sessuale ha una dimensione, innegabile, di genere. Gli studi e i dati a disposizione dimostrano che donne e ragazze sono principalmente e in modo sproporzionato colpite da queste forme di violenze, quale proiezione della violenza offline nel mondo digitale. Dall’analisi condotta, solo 11 Paesi, inclusa l’Italia, hanno criminalizzato il revenge porn. È ancora prematuro accertare l’attuazione della normativa penale in materia, visto che si tratta in tutti i casi (così anche per l’Italia) di una normativa recente. Quello che è emerso tuttavia è che misure di protezione in risposta a questo reato sono raramente contemplate (ad esempio accesso a case rifugio). Riteniamo che la criminalizzazione del comportamento sia essenziale, perché è più forte nell’incoraggiare o persino imporre ai providers di agire, accompagnata da misure quali campagne educative continue che sensibilizzino le persone sui rischi delle nuove tecnologie e del mondo digitale.
L’altro grande fenomeno digitale oggetto di indagine nel nostro rapporto è stato il discorso d’odio sulla base del sesso e/o genere. Colpisce donne e ragazze in ogni paese al mondo, dalle politiche alle giornaliste, dalle accademiche alle donne che vogliono condividere un’opinione o un pensiero sul web. Minacce di morte o altre forme di violenza nel web dopo aver postato una foto o un commento non devono mai essere normalizzate, mai condonate. Non sono scherzi, non sono battute di cattivo gusto su cui ridere: esse rappresentano una forma di discriminazione nei confronti delle donne. Vi è una diffusa miopia sull’importanza di contrastare il discorso d’odio sulla base del genere, sesso, identità di genere, orientamento sessuale, come il dibattito e il successivo affossamento del Ddl Zan hanno dimostrato. I discorsi d’odio sulla base del genere, sesso, identità di genere, orientamento sessuale costituiscono una violazione dei diritti umani fondamentali. I discorsi d’odio sessisti colpiscono le donne in quanto donne. Dovrebbero essere previsti dalla legge come reati. E in Italia non lo sono. Il nostro studio ha mostrato che, in realtà, la criminalizzazione del discorso d’odio sulla base dell’orientamento sessuale e/o identità di genere è piuttosto diffusa in Europa (23 paesi dei 31 esaminati), contro i soli 14 Stati che hanno esplicitamente riconosciuto il sesso e/o il genere come motivo alla base del discorso d’odio. Questo dato dovrebbe far riflettere ampiamente.
Il contrasto della violenza di genere contro le donne è ostacolato, da un lato, da stereotipi di genere persistenti e discriminazioni strutturali difficili da eliminare. Dall’altro lato, vi è una certa resistenza sul piano politico, benché la parità di genere in Europa sia promossa a più livelli, incluso in seno all’Unione europea. Le resistenze alla Convenzione di Istanbul ne sono una dimostrazione. L’adozione della Convenzione dieci anni fa, che si aggiunge alla ormai veterana convenzione interamericana sulla violenza contro le donne (1994) e al protocollo sui diritti delle donne in Africa (2003), sembrava essere una questione semplice. Del resto, il contrasto alla violenza contro le donne è spesso parte dell’agenda politica degli Stati. Eppure, i negoziati per la Convenzione di Istanbul sono stati complessi; recentemente, poi, gli Stati parte hanno approfittato della situazione politica interna per denunciare la convenzione (la Turchia è il chiaro esempio) o minacciare di farlo.
La parità di genere è un valore comune in Europa, incluso nei trattati dell’Unione europea e nel diritto del Consiglio d’Europa. Pertanto, parlare di violenza di genere contro le donne, e ciò dovrebbe essere fatto sempre e non solo a seguito di un femminicidio o il 25 novembre di ogni anno, sembra imprescindibile.
È per questo che nel nostro rapporto incoraggiamo un’azione dell’Unione europea per contrastare la violenza di genere contro le donne in Europa. Dibattiti sul se l’UE abbia o meno competenza impegneranno i giuristi, anche se presto la posizione della Commissione europea sul punto sarà resa nota. In quanto accademiche, femministe e donne, vogliamo sottolineare non sono le diverse realtà giuridiche esistenti nell’Unione europea, ma anche il particolare contesto politico nel quale questi dibattiti hanno luogo. La parità di genere è un valore primario dell’Unione europea che deve essere perseguito con ogni possibile strumento giuridico. Il percorso politico è costellato di difficoltà, ma le donne in Europa hanno dimostrato la forza e il coraggio di far fronte comune per sradicare una cultura che ancora oggi, alle soglie del 2022, discrimina le donne in quanto donne.
Sara De Vido (Università Ca’ Foscari di Venezia) & Lorena Sosa (Università di Utrecht)