La pandemia ha gettato benzina sul fuoco dell’adolescenza. Bambini e soprattutto adolescenti, i grandi dimenticati della prima ondata del Covid, sono tornati sotto i riflettori ma stavolta per l’allarme legato ad alcuni pesanti segnali di disagio che stanno emergendo: da un aumento dei sintomi di disagio psichico a un incremento dei casi di autolesionismo fino ai tentativi di suicidio.
Dopo essere stati i più resilienti nella prima fase, quella del lockdown di primavera, ora sembrano essere quelli maggiormente in sofferenza. L’allarme è arrivato da più parti e viene collegato all’isolamento e alla mancanza di socialità dei più giovani, che più di altri con la prolungata chiusura delle scuole stanno soffrendo le misure restrittive. Ma come questo isolamento possa diventare sofferenza così profonda va compreso, per evitare di bollare ragazzi e ragazze come fannulloni con poca volontà di reazione, da un lato, o vittime sacrificali di una società incapace di soddisfare i loro bisogni, dall’altro.
Uno studio realizzato dall’Università di Copenaghen analizzando i risultati di sette ricerche su oltre 200mila persone in Danimarca, Francia, Paesi Basse e Gran Bretagna e da poco pubblicato su “The Lancet Regional Health Europe” ha messo in evidenza come siano stati proprio i più giovani ad essere maggiormente colpiti da ansia, depressione e profondo senso di solitudine, nel periodo del lockdown. I ricercatori suggeriscono di prestare attenzione a questi segnali di disagio mentale. Si tratta solo dell’ultimo di molti alert che la comunità scientifica internazionale ha lanciato in questo senso (altri esempi qui e, più in generale, qui, qui le risorse dell’Oms). Chi lavora sul territorio, a diretto contatto con i giovani, denuncia la stessa situazione.
“La pandemia è la benzina gettata sul normale disagio giovanile. Se assumiamo che la pandemia è uno stato di sofferenza – ci spiega il professor Furio Ravera, psichiatra e psicoterapeuta – anche rispetto agli impedimenti che comporta, vediamo che questa sofferenza ha un’incidenza diversa a seconda della personalità in cui agisce. Se c’era già in atto una tendenza depressiva, per esempio, abbiamo visto forti aggravamenti, per quei ragazzi con difficoltà ad affrontare le difficoltà si son registrate magari esplosioni di rabbia, abbiamo visto un aumento dell’abuso di droghe, atti di autolesionismo che sono ripresi anche in quei casi in cui si erano interrotti, disturbi alimentari che sono tornati in maniera pervasiva“.
Un peggioramento generale, quindi, che diventa drammatico se si innesta su situazioni già problematiche. “L’autolesionismo è un gesto autopunitivo – sottolinea la dottoressa Alice Cerruti, psicologa e psicoterapeuta – chi lo compie lo fa per senso di colpa. E’ un gesto che aiuta a sentire il dolore fisico laddove il dolore emotivo non si riesce a sentire. Oggi, i ragazzi e le ragazze lasciati da soli sono ancora di più alle prese con il loro senso di inadeguatezza, con l’ansia che noi genitori per primi abbiamo trasferito su di loro“.
L’adolescenza è il momento in cui lo sviluppo porta alla definizione della propria identità. Un adolescente inizia a capire, a scegliere, che uomo e che donna vuole essere. Deve prendere tutto il bagaglio accumulato durante l’infanzia, portarselo nel mondo e scegliere cosa tenere in mano, da mostrare, da conservare, da utilizzare, e cosa lasciare in fondo alla valigia. Deve confrontare tutto questo mondo con il mondo esterno.
Ecco che il paragone, il contatto con i pari, amici, amiche, compagni di scuola, gruppi, conoscenti, diventa fondamentale: trae spunto, prende riflette, copia, per trovare, tra molte altre, la sua strada. “Togliere la socialità in questa fase – spiega la dottoressa Cerruti, specializzata in psicologia infantile e dell’età evolutiva – è come togliere il motore della vitalità, perché è il momento in cui gli investimenti emotivi devono essere fuori casa, è qui che si incontra la possibilità di diventare altro dal bambino e dalla bambina che sono stati in famiglia“.
Scontrandosi, anche in maniera violenta con i genitori, che rappresentano quelle radici che vanno messe in discussione, per spiccare il volo. In questo senso la mancanza della scuola non va derubricata come un dettaglio. “L’assenza della scuola non ha un effetto solo sulla formazione – sottolinea il professor Ravera – ma soprattutto sulla perdita di quelle occasioni e riti sociali che ne fanno parte e che sono fondamentali in adolescenza“.
Ma insomma, hanno detto alcuni, non stiamo parlando mica di una generazione che deve affrontare una guerra! Ha senso, allora, chiedersi, se questa generazione sia particolarmente fragile e per questo incapace di gestire una situazione straordinaria. “Non possiamo fare che generalizzazioni – mette in evidenza la dottoressa Cerruti – e certo ogni caso è a sé e ci sono ragazzi e ragazze che hanno reagito alle difficolta mostrando una forte resilienza. Ma quello che notiamo lavorando con gli adolescenti, in generale, è che siamo di fronte a una generazione iper protetta, figli di genitori che fanno di tutto per garantire loro felicità e benessere. Hanno tolto qualsiasi ostacolo dalla loro strada, si sono sostituiti a loro privandoli quindi della possibilità di mettersi alla prova, di crescere e di sviluppare quindi una sana autostima. Non sanno di avere delle risorse per reagire, non sono abituati a contattarle. Questi forti segnali di fragilità li vedevamo già prima del Covid“.
Benzina sul fuoco, appunto. Con segnali che spesso, in casa, nonostante la vicinanza, non vengono correttamente interpretati: “Anche i genitori sono disorientati – dice la psicologa – faticano ad accettare la necessaria conflittualità che serve agli adolescenti, quella dose di trasgressione indispensabile, cercano di aggirarla, evitarla e finiscono per non distinguere le normali situazioni di disagio giovanile dai segnali più preoccupanti e che dovrebbero allarmare“.
Ciò che più ha colpito e preoccupato, in queste settimane, sono proprio le conseguenze estreme di queste situazioni, fino a un allarme sull’aumento dei tentativi di suicidio. Il professor Ravera, che ha appena pubblicato per Salani “Anime adolescenti. Quando qualcosa non va nei nostri figli”, una guida a domande e risposte per orientarsi nel mondo dei ragazzi e delle ragazze, conferma dal suo osservatorio che la situazione complessiva ha “influito anche sulla suicidarietà, con tutte le forme di spinta” in quelle situazioni che presentavano già elementi di fragilità e disagio. Riferendosi anche alle due recenti drammatiche morti di una bambina di 10 anni e di un bambino di 9, pochi giorni dopo, pur sottolineando che “tutto è da capire” in quelle vicende, Ravera sottolinea che “sono ben note le influenze dell’emulazione nei casi di suicidio“, elemento per cui anche la copertura mediatica di casi come questo deve sottostare ad alcune precise regole.
“I casi di tentato suicidio o di mancato suicidio (quando cioè la persona mette in atto una tecnica atta a provocare la morte e solo fortuitamente si salva, ndr) meritano attenzione e modestia nell’essere trattati“, dice Ravera. “Se ci pensiamo – prosegue – noi siamo attaccati alla vita anche quando questa non ci dà niente in cambio, pensi ai campi di concentramento per esempio, dove i suicidi erano relativamente pochi rispetto al contesto di orrore“. Il malessere, quindi, in questi casi arriva dal profondo ed è lì che c’è bisogno di ascolto e di aiuto, affinché quella percezione dolorosa trovi uno spazio di espressione e possa anche essere cambiata, tramutarsi in una possibilità di speranza.
In una situazione di disagio, “dobbiamo ricordarci anche di non dare tutte le colpe o le responsabilità ai genitori – conclude la dottoressa Cerruti – non è questo che serve in questo momento. E’ importante però – sottolinea – che impariamo a cambiare lo sguardo sulle ragazze e sui ragazzi, privandoli delle nostre proiezioni e lasciando loro lo spazio e la fiducia di cui hanno bisogno, soprattutto in questo momento in cui genitori e figli sono in difficoltà“. Uno sguardo nuovo, che porti anche a nuove azioni.