Rivoluzione GenZ, in Bangladesh gli studenti hanno fatto dimettere la premier

La rivoluzione della Generazione Z: è così che passerà alla storia il movimento di protesta dei giovani studenti che, ad agosto, in Bangladesh ha portato alla caduta del governo presieduto dalla prima ministra Sheikh Hasina. Le dimissioni della premier, dopo 15 anni di governo, rappresentano una svolta politica per il Paese e, a metterla a segno, sono le giovani generazioni bengalesi.

Sfidando una repressione durissima – secondo un conteggio dell’agenzia di stampa Afp, basato sui rapporti della polizia, sarebbero almeno 300 le vittime delle proteste – gli studenti sono scesi in piazza per denunciare la crisi democratica del Paese e, dopo aver ottenuto le dimissioni della premier, hanno indicato Muhammad Yunus, professore di economia e premio Nobel per la Pace nel 2006, come nuovo capo del governo ad interim del Bangladesh.

«Questa potrebbe benissimo essere la prima rivoluzione di successo guidata dalla Generazione Z» ha affermato Sabrina Karim, professoressa associata di governo alla Cornell University, specializzata nello studio della violenza politica. Da noi la notizia potrebbe essere passata sotto traccia a causa delle vacanze estive, ma l’impatto delle proteste coinvolge anche l’Italia dove, come riportano i dati del report “La comunità bangladese in Italia – Rapporto annuale sulla presenza dei migranti”, i cittadini bengalesi regolarmente soggiornanti al 1° gennaio 2023 sono 162.6411. Un incremento del 7,7% rispetto all’anno precedente.

Perché sono scoppiate le proteste

«Se non si conosce la storia politica del Bangladesh è difficile capire che le proteste non sono nate improvvisamente» spiega ad Alley Oop Papia Aktar, nata in Bangladesh e residente in Italia da oltre 25 anni dove è responsabile degli sportelli di orientamento legale per migranti all’Arci Roma. I motivi che a inizio luglio hanno portato gli studenti a protestare presso la prestigiosa Università di Dhaka, infatti, sono di matrice politica: le manifestazioni studentesche, poi allargatesi a tutta la popolazione, chiedevano la fine del sistema di quote governativo che riservava il 30% dei posti nella pubblica amministrazione ai familiari dei veterani che hanno combattuto nella guerra d’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan nel 1971.

La legge in materia, sospesa nel 2018 proprio in seguito ad altre proteste, era tornata in vigore alla fine di giugno e prevedeva che più della metà di tutti i posti fissi statali bangladesi fossero riservati a categorie specifiche individuate, in teoria, tra gli strati più svantaggiati della società: 10% alle donne, 10% a chi proviene dai distretti economicamente meno sviluppati, 5% alle comunità indigene, 1% alle persone con disabilità e 30% ai parenti dei “freedom fighter” morti durante la guerra di indipendenza dal Pakistan nel 1971. Al governo Hasina è stata chiesta con forza l’abolizione di quest’ultima quota, considerata un favoritismo pensato per ricompensare chi sostiene l’Awami League, il partito fondato dal padre della prima ministra Hasina, Sheikh Mujibur Rahman, eroe dell’indipendenza bangladese e primo premier del Bangladesh.

Per la gioventù bangladese un posto fisso nell’amministrazione pubblica è un lavoro molto ambito, poiché garantisce una stabilità economica che a lungo è mancata. «Per le generazioni precedenti a quelle che oggi guidano le proteste in piazza si prefigurava quasi sempre la scelta di un doppio futuro: rimanere in Bangladesh, accettandone le condizioni, o andare fuori – afferma Aktar -. Adesso, invece, chi studia vuole avere il diritto di rimanere nel proprio Paese senza normalizzare o accettare lo status quo». Nonostante il Bangladesh abbia visto una forte crescita economica sotto Hasina, il trend virtuoso ha rallentato nell’era post-pandemia subendo un’elevata inflazione. «Le proteste sono partite proprio dai giovani perché vogliono immaginare un futuro nel loro Paese – continua Aktar – Rivendicare questo diritto è una questione politica».

La repressione del dissenso

Nelle manifestazioni di piazza non è stato solo il lavoro il tema centrale. I giovani si sono battuti per la libertà denunciando la crisi democratica del Paese. L’ultima tornata elettorale, conclusa nel gennaio del 2024, ha registrato la peggiore affluenza alle urne nella storia del Bangladesh (inferiore al 42%). Le opposizioni, guidate dal Bangladesh Nationalist Party (Bnp), avevano deciso di boicottare il voto per rispondere alla campagna repressiva che il governo Hasina aveva inflitto contro i suoi avversari politici arrestando migliaia di sostenitori del Bnp. La comunità internazionale aveva lanciato l’allarme e molte Ong – comprese Amnesty International e Human Rights Watch – da anni denunciavano la condotta violenta delle forze dell’ordine bangladesi, accusate di violazione dei diritti umani e di tortura, formalmente illegale in Bangladesh dal 2013. Durante il suo mandato, i gruppi per i diritti umani avevano anche denunciato l’utilizzo della legge sulla sicurezza informatica da parte del governo per reprimere la libertà di espressione online, arrestando giornalisti, artisti e attivisti e segnalando casi di detenzione arbitraria e tortura. Ciò nonostante, le elezioni bengalesi si si sono tenute comunque confermando per la terza volta consecutiva Sheikh Hasina e aumentando la tensione nel Paese.

«In Bangladesh, anche rivolgersi alla polizia per denunciare, ad esempio, l’occupazione di un terreno non è scontato. Così come ricevere aiuto dalle autorità. La dura repressione durante le proteste lo dimostra» dice Aktar. La polizia del Bangladesh ha sparato colpi di arma da fuoco contro gli studenti manifestanti nella capitale Dacca. L’esercito ha dichiarato il coprifuoco e chiuso le scuole. L’accesso alle vie che portano all’ufficio dell’ormai ex premier è stato regolato da blocchi stradali e barricate durante le proteste.

Gli studenti guidano il processo democratico

«Sheikh Hasina non dovrebbe solo dimettersi, ma anche affrontare un tribunale per omicidio, saccheggio e corruzione», aveva detto Nahid Islam, leader delle manifestazioni studentesche. È quanto accaduto lo scorso 5 agosto, quando la premier ha annunciato le sue dimissioni e lasciato il Paese a bordo di un elicottero.

Oggi Nahid Islam e Asif Mahmud sono i due studenti che, per la prima volta al mondo, sono membri di un governo ad interim. A guidarli c’è Mohammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006, conosciuto in tutto il pianeta come il “banchiere dei poveri”.

«Questo è un momento importante per il percorso democratico del Paese e per la realizzazione delle aspirazioni del popolo del Bangladesh e dei suoi giovani – ha commentato Josep Borrell, alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza  -. L’Unione europea è ansiosa di impegnarsi con la nuova amministrazione e di sostenere questa transizione critica che dovrebbe essere parte di un processo pacifico e inclusivo sostenuto dal buon governo, dai valori democratici e dal rispetto dei diritti umani».

Perché quello che è accaduto in Bangladesh ci riguarda

«Le proteste in Bangladesh ci riguardano perché la comunità bengalese è molto presente e numerosa in Italia ed è anche una delle prime nazionalità di arrivo nel nostro Paese» sottolinea Papia Aktar. Dalla capitale bengalese a quella italiana, nei giorni caldi delle proteste sono andate in scena in tutta Italia manifestazioni della comunità bengalese concentrata soprattutto al Nord (46,2%) e al Centro (36%). A Mestre in migliaia, arrivati anche da Venezia e provincia, si sono dati appuntamento per protestare contro il governo di Hasina. «Tanti di noi sono preoccupati per i familiari rimasti in patria. Da giorni sono stati interrotti i contatti Internet e non abbiamo notizie dei nostri parenti. Siamo contro questo governo dittatoriale, chiediamo giustizia e libertà», aveva denunciato Prince Howlader, uno dei portavoce dei bengalesi mestrini.

Anche a Modena, in piazza Matteotti, la comunità bengalese si è riunita per manifestare solidarietà ai connazionali in Bangladesh. «Molti di noi sono laureati come i nostri connazionali uccisi in patria – ha affermato Charag Uddin, presidente dell’associazione Sylhet (Bangladesh) di Modena –. Siamo venuti qui alla ricerca di un futuro migliore, proprio per le difficoltà che viviamo nel nostro Paese». A Roma le proteste sono arrivate all’esterno dell’ambasciata del Bangladesh e, dopo le dimissioni della premier, i festeggiamenti sono proseguiti nel quartiere Torpignattara: il quartiere multietnico dove si concentra gran parte della comunità bengalese romana e che ospita il plesso Carlo Pisacane dell’Istituto Comprensivo Simonetta Salacone. Quindici anni fa noto come la scuola con il 95% di alunni immigrati o figli di immigrati, oggi celebre per essere una vera e propria palestra d’integrazione.

«La comunità che vive in Italia o in altri Paesi è stata molto politicizzata dalla politica bengalese: gli esponenti del partito a cui apparteneva il governo dimissionario e che vivono in Italia, ad esempio, incontravano la premier ogni volta che tornavano in Bangladesh. Questa relazione diretta ha portato tanti bengalesi in Italia a uniformarsi al loro pensiero e a temere di esprimere qualsiasi forma di dissenso» specifica ad Alley Oop Aktar, che prosegue: «Basti pensare che, ogni 15 agosto, tanti bengalesi cambiano le loro immagini del profilo sui social con una foto di Sheikh Mujibur Rahman – primo presidente, “padre fondatore” del Bangladesh nonché padre dell’ex prima ministra – per commemorare il suo assassinio». Le manifestazioni in solidarietà delle proteste antigovernative avvenute in Italia, quindi, segnano un ulteriore e importante cambio di rotta.

Bangladesh “Paese sicuro”? I dati sui flussi migratori

Sulla sicurezza del Bangladesh e la tutela dei diritti nel Paese pesano diverse ambiguità che hanno diretta influenza sulla gestione dei flussi migratori. «Il mancato riconoscimento della protezione internazionale in Italia per chi arriva dal Bangladesh avviene perché manca la reale percezione dei problemi politici del paese d’origine» dice Aktar, quotidianamente al lavoro sul tema.

Il 7 maggio 2024, il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, di concerto con il ministero dell’Interno e il ministero della Giustizia, ha emanato un decreto che aggiorna e amplia l’elenco dei Paesi di origine considerati sicuri per i richiedenti protezione internazionale, includendo altri sei Stati, tra cui il Bangladesh insieme a Camerun, Colombia, Egitto, Perù e Sri Lanka. Come sottolinea Amnesty International, in realtà il Bangladesh non può essere considerato un Paese sicuro poiché «ha intensificato la repressione dei diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica in vista delle elezioni generali previste per gennaio 2024». Un aspetto già evidenziato dal Parlamento europeo che, con la risoluzione n. 2023 del 14.09.2023, indicava come la situazione nel paese asiatico si fosse «gravemente deteriorata, anche per quanto riguarda le esecuzioni extragiudiziali, le sparizioni forzate, la libertà di espressione e i diritti dei lavoratori».

«Si crede erroneamente che, quando chi arriva dal Bangladesh chiede la protezione internazionale, i motivi siano personali ed economici più che politici. In realtà le storie private raccontano la storia politica del Paese», aggiunge Aktar. Il già citato Rapporto annuale sulla presenza dei migranti fa emergere che la comunità bengalese si colloca in terza posizione per numero di nuovi permessi di soggiorno rilasciati nel 2022, oltre 24mila. Motivi prevalenti di ingresso sono stati la richiesta di asilo, motivi umanitari o altre forme di protezione, che coprono quasi due quinti degli ingressi (39,2%). Il numero di ingressi legati a tali motivazioni è quasi raddoppiato rispetto all’anno precedente (+95,6%). Tuttavia a lasciare il Paese sono soprattutto gli uomini (72% rispetto al 26% delle donne). Un dato che evidenzia «uno storico protagonismo maschile nella migrazione dal Bangladesh» e che racconta come alle donne anche la possibilità di scegliere tra le opportunità (rimanere o andare) non sia riservata in egual misura.

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