Parlo molto, ma non di tutto. Ci sono cose che tengo per me perché a volte mi sento pesante. Cicli continui di docce fredde fatte di “non esagerare, il problema è tutto nella tua testa, secondo me te la prendi troppo”. Docce fredde fatte di parole, ma anche di sguardi e pacche sulle spalle.
Ho attraversato fasi confuse e discordanti: da “forse sono io che esagero”, a “il problema non esiste”, a “mi sento sola e incompresa”, fino a “c’è nessuno? Qualcuno che mi vede e osserva il mio dolore?”. Sono fasi continue e proprio in questi giorni sento di essere all’inizio dell’ennesimo ciclo di domande e frustrazioni.
Tu non puoi capire
Da qualche settimana mia madre (che vive a Roma, mentre io a Milano) sta facendo i lavori a casa. Impianto elettrico e imbiancatura. La prima volta dall’arrivo in questa casa (che risale a trent’anni fa).
Da mesi, completamente sola, smonta mobili e impacchetta la quantità infinita di libri che ormai da anni ha preso il sopravvento sui quei 50 metri quadri. Da un mese, completamente sola, rientra a fine giornata in una piccola casa che è un cantiere.
Facciamo chiarezza: è senza dubbio un first world problem (un problema da primo mondo e da privilegiati). Eppure c’è un’enorme complessità fisica e emotiva, in queste giornate frenetiche. Ma a fare tutto da sola mia madre è abituata da trent’anni. Mi ha cresciuta da sola, ha pagato un mutuo da sola, ha trovato lavoro, ogni volta, da sola. Fare da sola e farcela non è stata di certo una scelta, ma per virtù e coraggio ne ha fatto un mantra.
Sono tornata a Roma qualche giorno per darle una mano. Io sento di riuscire a capire e leggere quella complessità. In realtà non mi è così difficile, perché l’ho vissuta.
In quei giorni non ho fatto altro che ascoltare conversazioni di mia madre con persone molto privilegiate: “ti capisco, ci sono passata anche io”, “basta solo stringere i denti, i lavori a casa li fanno tutti”.
Ogni volta sentivo un fastidio irrefrenabile e una fitta sul cuore. Forse rabbia, o forse tristezza. Ma in che senso ci siete passati anche voi? Nel senso che per una vita avete gestito tutto da soli?
Ogni riflessione di questo tipo mi raggiungeva come un colpo: svalutante e banalizzante.
Tutte le discriminazioni del mondo
E così ho ricordato tanti episodi della mia vita.
I diari di una Shata cinquenne confessano nel buio di una stanzetta di occhiali rotti a scuola, di discriminazioni agite da maestre e bambini. Ad esempio c’è stata una volta in cui, mentre mia madre spiegava perché non fosse il caso di chiamarmi n**ra, un altro genitore rispose “vabbè, ti capisco, mio figlio ci rimane malissimo quando lo chiamano roscio..”.
E poi il giorno in cui sono stata presa in giro mentre spiegavo perché fosse problematico comporre un panel di soli uomini. O la volta in cui mi hanno detto che non era così grave che in un panel non fossero presenti donne nere.
Dal letame nascono i fiori, ma da esperienze come queste nasce solo delusione. Molto dolore. E nel migliore dei casi qualche domanda.
O ancora le volte in cui ho osservato donne incinte farsi in quattro per non rinunciare alla carriera e ho pensato “ma tutto sommato è una loro scelta”. Persone disabili chiedere a gran voce di poter creare le condizioni per prevedere la loro partecipazione a manifestazione, rendendomi conto di non aver mai pensato a quell’esigenza. Oppure quando, interfacciandomi con persone con depressione, ho pensato che potessero darsi una svegliata e impegnarsi di più.
È un po’ la storia di tutti e tutte noi. Quelle volte in cui non siamo riusciti a capire. Quelle volte in gli altri non ci hanno capiti.
Quelle volte in cui la nostra discriminazione non è stata accolta, è stata svalutata. La nostra storia è stata banalizzata. Quelle volte che a ogni “ti capisco” avremmo voluto rispondere “non puoi capirmi davvero”. Quelle volte in cui abbiamo risposto “non puoi capirmi davvero”. E quelle volte in cui siamo stati noi a non capire e abbiamo pensato “va bene, adesso forse stai esagerando”.
E quindi per giorni non ho fatto altro che chiedermi: perché noi persone discriminate siamo sempre così pesanti? Perché noi persone non discriminate non capiamo la discriminazione degli altri? Perché la svalutiamo? Perché non riusciamo a vederla?
È uno degli atteggiamenti umani, questo, che da sempre mi affascina di più. La nostra capacità di vedere ciò che conosciamo e lottare per le cose che ci stanno più a cuore. La nostra incapacità di osservare quello che non conosciamo. E di accoglierlo. Senza resistenza.
Ed è davvero una fortuna che oltre ai miei pensieri, alla mia frustrazione e alla mia storia ci siano sul tema quintali di testimonianze e di letteratura.
Perché le persone discriminate ci sembrano sempre così pesanti?
La sensazione di parlare con una persona pesante, che non si fa mai una risata, ce l’ho avuta anche io. Sicuramente comunque molte meno delle volte in cui mi sono sentita io quella pesante.
Una volta ero in riunione con un team di progetto e ho utilizzato l’espressione “figlio di papà”. Tempo di dirla e ho realizzato subito che si trattava di un modo di dire problematico. Almeno per due motivi: “figlio di papà” presuppone un sistema educativo patriarcale e soprattutto presuppone che tutti i bambini abbiano un papà. E per non farmi mancare niente l’ho detto davanti a una persona che ha una figlia nata da una coppia omogenitoriale.
La verità è che le persone discriminate ci sembrano pesanti per due motivi: il nostro privilegio che ci acceca e l’incapacità di cogliere una prospettiva diversa dalla nostra.
Guardiamo sempre avanti e mai indietro
Se avete mai osservato o sperimentato la camminata del privilegio, sapete di cosa parlo. Si tratta di una attività breve ma molto potente. Un gruppo di persone viene posizionato in riga e a ognuno è assegnato un ruolo. Durante la camminata del privilegio si può essere, ad esempio, un amministratore delegato, una casalinga o una persona disabile. Per ogni domanda le persone vengono invitate a fare un passo avanti se la risposta è vera per loro, un passo indietro se la risposta non è vera per loro. Ad esempio, se io rappresento una casalinga, alla domanda “posso scegliere liberamente cosa acquistare quando voglio”, farò un passo indietro.
L’attività si conclude con distanze visibilmente abissali. C’è chi è molto avanti e chi è molto indietro.
Nel chiedere a chi è molto avanti “chi vedi?” la risposta è sempre “nessuno, sono tutti dietro di me”. Nel chiedere a chi è molto indietro “chi vedi?” la risposta sarà “tutti gli altri”. E la stessa persona saprà descrivere benissimo forme, colori, distanze.
Se una cosa non l’abbiamo mai vissuta, facciamo fatica a vederla. Come quando ci rompiamo una mano o facciamo un’operazione agli occhi e realizziamo solo in quel momento, per qualche giorno, quanto quel pezzo di corpo fosse fondamentale per noi.
Noi essere umani siamo fatti di magia, ma anche incapaci di osservare ciò che non conosciamo. E quando ci viene fatto notare che la nostra visibilità è pari a zero perché siamo più avanti, non siamo abbastanza coraggiosi da girarci.
Capita anche a professioniste DE&I come me di utilizzare il termine sbagliato, di utilizzare il riferimento sbagliato oppure di non considerare dei punti importanti. E per questo vengo giustamente ripresa. Ammetto che a volte sento dentro di me un senso di fastidio. “Beccata!” dice la mia pancia. La mia reazione è dettata dal fatto che non vorrei sbagliare mai e che comunque essere ripresi è sempre fastidioso. E soprattutto dal fatto che girarmi per osservare quello che ancora non conosco è faticoso. Quando è così, so di mancare di coraggio.
Manchiamo di coraggio e siamo terribilmente egocentrici
Facciamo una fatica bestiale a metterci nei panni degli altri. Riusciamo e vedere chiaramente ciò che ci somiglia di più, ma siamo completamente ciechi rispetto a ciò che conosciamo di meno.
L’egocentrismo è tipico dei bambini, ma anche degli adulti. Tendiamo a sentirci al centro e non saperci mai osservare in periferia. L’opposto dell’egocentrismo viene definito, in psicologia sociale, il perspective taking: la nostra capacità di cogliere una prospettiva diversa dalla nostra, senza presunzione e senza pre-giudizio.
E un altro problema è che entriamo in relazione con compassione, invece che con empatia. La compassione è quella cosa per cui diciamo a chi sta peggio di noi “oddio, poverina, mi dispiace tanto, spero il tuo problema si risolva presto!”. L’empatia, invece, è quell’atteggiamento per cui diciamo “il tuo problema diventa anche un mio problema. Il tu, da adesso, diventa noi. Come lo risolviamo insieme? Come posso essere tua alleata?”.
Agire con empatia e prospettiva significa prendersi le proprie responsabilità e considerare urgente non solo quello che è urgente per noi.
Le persone discriminate ci sembrano pesanti perché siamo noi a essere troppo leggeri. Leggiamo con superficialità e egocentrismo la realtà. Posizioniamo i problemi in priorità solo in base alla nostra storia, ai nostri vissuti, al nostro sistema di valori. Le persone discriminate ci sembrano pesanti perché non sappiamo metterci in discussione. Non sappiamo accogliere un feedback. Non sappiamo mettere da parte l’orgoglio. Non sappiamo girare la testa e osservare in silenzio cosa c’è dietro di noi. Quanto ci costa chiedere scusa? Spostare l’attenzione dall'”io” al “noi”?
Perché le persone discriminate sono sempre così pesanti?
Io questa domanda l’ho sempre presa molto sul serio. Perché a forza di svalutazioni, pesante mi ci sono sentita davvero. E continuo a sentirmici a intervalli alterni.
Qualche giorno fa una persona mi ha detto che ogni tanto potrei vivere le cose con più leggerezza, permettermi di scherzare di più. E qualche giorno prima una persona ha dibattuto a lungo con me sul fatto che il punto che attenzionavo non fosse così problematico.
Solita reazione: un pendolo che oscilla tra la rabbia e la tristezza. Entrambe le volte mi sono fermata un attimo e mi sono guardata allo specchio.
La discriminazione è una condizione
Se il privilegio non è una colpa ma una responsabilità, la discriminazione è una condizione e non una scelta. E per questo non può apparire e sparire a piacimento. Io la mia discriminazione la vedo e la sento tutti i giorni. E lo stesso vale per tutte le forme di discriminazione. Non è che possiamo decidere di vederla a intervalli alterni. La vediamo quando ci guardiamo, e ancora di più quando ci guardano gli altri. Potessimo lavarci la discriminazione di dosso con un po’ di acqua e sapone lo faremmo subito. Ma possiamo far sparire in un batter d’occhio le discriminazioni degli altri. E per questo riusciamo a vedere meglio solo ciò che conosciamo molto bene.
Qualcuno si ricorda di me?
Mentre liberavo la mia camera romana per prepararla ai lavori ho trovato un bel po’ di bambole e Barbie nere e ricce. Per me quelle bambole sono state molto importanti. Vedevo rappresentato in un gioco qualcosa di me. Ho ricordato anche che la mia idola per anni era stata la 66º Segretaria di Stato degli Stati Uniti Condoleezza Rice. Per quanto non condividessi assolutamente le sue posizioni politiche, vedere rappresentato un pezzo di me in una posizione del genere è stato importantissimo. Un po’ come per tutti i bambini che si sognano calciatori e lo fanno immaginandosi al posto degli idoli che vedono giocare in televisione. Ma fuori dalla mia camera quella rappresentazione era quasi inesistente. E per questo quando chi è discriminato non si vede rappresentato si chiede “qualcuno si ricorda di me?”. Ed eccole li: tristezza, frustrazione, rabbia. Il dolore di non essere visti.
Le persone discriminate sono pesanti perché si sbracciano tutti i giorni per dire agli altri “mi vedi? Ci sono anche io. E con me porto la mia storia e i miei bisogni. Ti importa di me?”. Sono pesanti perché molto spesso la risposta è “no, non ci importa di te”.
Validare e non invalidare
Questo è un dolore che ha bisogno di essere compreso, visto. Di cui bisogna avere cura. Come fate a non vederlo? E quando succede a me, come faccio a non vederlo? Ha bisogno di essere validato e non invalidato.
Le persone discriminate sono sempre così pesanti perché soffrono ogni giorno svalutazione, silenzio, trasparenza. E all’interno di questa cornice devono prendersi la responsabilità di rincorrere chi è più avanti, dare un colpetto sulla spalla e dire “ehi, non correre. Girati un attimo, qui dietro ci sono anche io. È un po’ umiliante, lo ammetto, ma ti spiego come mai sono così indietro rispetto a te. Spero tu capisca. Non è proprio colpa mia se non sono avanti come te. Ti va di darmi la mano e camminare insieme? Non ti chiedo di rallentare, ma di ricordarti anche di me. Che per venire qui a dirtelo ho corso così forte che adesso non ho più fiato. Non deludermi, ti prego”.
Il carico è tutto sbilanciato da una parte sola: sono io che vedo, che corro, che rincorro, che mi sbraccio per essere vista. A te che sei lì davanti non è richiesto tutto questo sforzo, solo di girarti e ricordarti anche di me.
Eppure quando siamo noi a essere lì davanti, spesso non riusciamo a fare neanche questo.
Le persone discriminate sono sempre così pesanti perché non hanno tempo e privilegio per riprendere fiato e farsi quattro risate. Perché non c’è niente di leggero nella discriminazione. Niente da ridere. Perché la leggerezza è un privilegio. Perché la rabbia e la tristezza sono l’unico fuoco che mobilita l’energia. Perché arrabbiarsi è un diritto che va rispettato. Perché è l’unica arma che non gli può essere sottratta.
Le persone discriminate ci sembrano pesanti perché c’è un mondo che non riusciamo e non vogliamo vedere. Perché abbiamo troppo poco coraggio per voltare la testa, metterci in discussione. Perché non sappiamo accogliere il dolore degli altri.
Per tutte le volte in cui mi dicono che sono pesante e per tutte le volte in cui sono io a dirmi che le persone discriminate sono pesanti: “Fare un passo più in la, guardare indietro, accogliere il dolore, tendere la mano”. Basterebbe poco. Poco così. Per distribuire, insieme, peso e leggerezza.
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