Il rap di Totò, dalla Comunità Ministeriale al palco del Sud Sound Festival

Trovarsi a vent’anni, da un giorno all’altro, a firmare autografi accanto al nome di Finesse e a calcare la scena insieme ai propri idoli come Sfera Ebbasta. Non è la trama di un film, ma la storia vera di Totò arrivato dalla Comunità Ministeriale di Catanzaro al palco del Sud Sound Festival di Reggio Calabria.

Le comunità ministeriali sono strutture alternative alle carceri e ospitano minori di età compresa tra i 14 e i 17 anni e maggiorenni tra i 18 e i 25, condannati per reati compiuti quando ancora minorenni. Si arriva in comunità per l’esecuzione di misure diverse: da quelle cautelari alle misure alternative alla pena, dal riformatorio giudiziario alla messa alla prova. A differenza dei penitenziari, sono strutture aperte, permettono di svolgere attività fuori e mantenere relazioni con l’esterno, soprattutto con le famiglie di origine. L’obiettivo ultimo è consentire ai ragazzi e alle ragazze di condurre una vita il più possibile vicina a quella dei loro coetanei, aiutandoli a superare le situazioni di complessità che hanno alle spalle.

La fase più delicata è il momento dell’ingresso in comunità. Allora viene definito, dopo un periodo di osservazione, un programma educativo che dura fino all’udienza di giudizio immediato o abbreviato, nel corso della quale il giudice decide se proseguire il procedimento o concedere, a richiesta del ragazzo, il beneficio della messa alla prova. Quanti riescono a seguire fino alla fine del percorso penale, con esiti positivi, il progetto previsto per la messa alla prova, vedono il reato commesso estinguersi all’udienza finale.

L’ancora di salvezza della musica

Totò è uno di questi ragazzi che guardano il mondo a cavallo tra il dentro e il fuori. Compone canzoni rap e grazie alla musica è riuscito a portare davanti a migliaia di persone un pezzo di sé, della sua vicenda di adulto in un corpo di ragazzo. «Il rap è un bisogno, un modo per tirare fuori i propri sentimenti e liberarsi da pesi che altrimenti non vengono galla».

Le prime canzoni di Totò appartengono alla sua vita prima della comunità. «Di brani ne ho scritti tanti: molti più di quelli che sono riuscito a registrare. In comunità non ho mai smesso di ascoltare musica e di scrivere. A un certo punto, però, il bisogno di tornare a incidere si è fatto troppo forte. Per questo ho chiesto ad Arianna e al direttore di riprendere in qualche modo». Arianna Mazza, educatrice, è funzionaria della professionalità giuridico-pedagogica all’interno della struttura diretta da Massimo Martelli.

Crisi come Opportunità

È così che entra in scena, interpellato dalla direzione, Francesco Carlo, in arte Kento, uno dei rapper senior che curano i presidi culturali permanenti dell’associazione Crisi Come Opportunità (CCO) in diversi istituti penali e comunità per minori. CCO, dopo una prima fase di lavoro in campo internazionale, dal 2009 ha concentrato le attività in Italia, avviando progetti artistico-musicali per giovanissimi in regime di detenzione o inseriti in comunità, su impulso di un altro volto della scena rap italiana, Lucariello, nome d’arte di Luca Caiazzo.

«Storie come quella di Totò – premette Kento – non sono così frequenti, purtroppo». I giovani che vivono all’interno delle comunità e delle carceri minorili hanno trascorsi così problematici che non sempre ne riemergono. Nelle comunità si studia, si fa sport, si tengono laboratori e percorsi con finalità formative e terapeutiche. Chi ha problemi di dipendenza può accedere settimanalmente al Ser.D.. Ci sono stati ragazzi che, dopo aver terminato il percorso previsto dall’autorità giudiziaria, hanno chiesto di prolungare la permanenza per un breve lasso di tempo, per completare i progetti intrapresi. Ma ci sono anche altri che, dopo aver intravisto la speranza di un cambiamento, tornati nei territori di origine, si sono ritrovati soli.

Totò, però, a sentire quanti lo accompagnano può avere davanti a sé un epilogo diverso. «La prima volta che ho ascoltato la sua musica – racconta Kento – ho capito che c’era del talento, ma bisognava testare se oltre alla bravura ci fossero anche serietà e disciplina». Per settimane, Francesco ha lanciato sull’aspirante compositore veri e propri «missili»: una pioggia continua di input che Totò ha raccolto senza demordere. Quando all’orizzonte si sono accese le luci del Palacalafiore di Reggio Calabria, Francesco gli ha posto l’ennesima sfida. «Mi sono attivato – ricorda – perché attraverso CCO potesse partecipare al Sud Sound Festival. A una condizione però: che presentasse una candidatura inappuntabile».

Tre beat e un’opportunità enorme che Totò non ha mancato. «Due delle basi ricevute – racconta il giovane rapper – riproponevano un sound già sentito. La terza traccia, invece, mi pareva che potesse funzionare. Ho cominciato a comporre il testo, che ha preso forma in una ventina di minuti. Nel giro di qualche giorno, il brano è arrivato a Francesco». Due mesi dopo, Totò era pronto a salire sul palco. Il buio calato sulla sua mente per l’emozione si è dissipato al cospetto del pubblico. È lì che è arrivata un’altra delle soddisfazioni più grandi: le lacrime del padre. Un calabrese tutto d’un pezzo. «Non ho mai visto mio papà piangere. So che lo ha fatto quando mi ha visto esibirmi».

Il papà e la mamma sono la molla che spinge Totò verso il futuro: un orizzonte confuso che però non smette di inseguire, col profondo desiderio di continuare a fare musica. «Mi sono diplomato e ora frequento l’università soprattutto per i miei genitori. Per restituire quello che mi hanno dato e provare a curare il dolore causato con i miei sbagli».

In questa vicenda di liberazione come poche, è chiaro il potere della musica quale «arma positiva» come la definisce Kento. Un’arma che CCO e le istituzioni con cui collabora utilizza per indicare, dentro le crisi, opportunità nuove per ragazze e ragazzi che sembrano non avere prospettive. «La musica – spiega Lucariello – ha una vera capacità di sublimazione e quindi un valore terapeutico. Nel momento in cui una cosa viene raccontata è come guardarla dall’esterno: si riesce a giudicarla e capirla. Quando le emozioni e le esperienze più forti e negative rimangono inespresse, diventano bombe a orologeria destinate a esplodere».

Lacariello e Kento

Lucariello e Kento hanno attraversato il Sud degli anni Novanta: il decennio delle faide e delle guerre di mafia che hanno seminato morte e disperazione. Un periodo cruciale, nel corso del quale la scena rap partenopea ha rotto un monopolio culturale. Un movimento di reazione raccontato da Luca Caiazzo, in tutto simile alla storia di cui è portatore Francesco Carlo. «A me tutto quello che ha che fare con mafia e ‘ndrangheta fa schifo. Ho visto coi miei occhi cosa ha fatto la ‘ndrangheta a amici e compagni di scuola. Metà di loro oggi è in carcere o sottoterra. Se per me è andata diversamente lo devo solo alla mia famiglia e alla musica».

Trent’anni dopo l’inizio di quelle rivoluzioni culturali, il rap resta un linguaggio capace di dare voce a quanto non si vuol vedere, né ascoltare. La voce forte e sanguigna di Kento fa emergere la fatica di chi, ogni giorno, fa i conti con l’esperienza di giovani «che vivono con la cocaina in una tasca e la pistola nell’altra. Ragazzi e ragazze che hanno atteggiamenti tremendi di cui però il rap (o la trap) non è la causa. Questa musica non è il virus, ma il sintomo: il rap fa tanto più fa schifo quanto più schifo fa il mondo nel quale viviamo».

Rovesciando il punto di vista, si infrange il sentire comune. «Dentro il rap – gli fa eco Totò – trovano posto tutte le emozioni. Non esiste un altro genere che le esprima così. Se vivi nella violenza, scriverai e canterai di violenza. Tutto dipende da ciò che vedi. Noi viviamo in una società in cui il degrado è pubblico e viene mostrato come se non avesse peso né conseguenze. Chi lo racconta attraverso il rap non è da additare perché, semplicemente, utilizza una forma d’arte che ci mostra le cose per come sono».

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  • Stefania Benelli Barilli |

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