Molestie e pubblicità, il collettivo Re:B contro la cultura tossica nelle agenzie

“The answer will be bold”. Il collettivo  Re:B nasce per dare una risposta alla cultura tossica nelle agenzie di comunicazione. “È successo anche a me”: è da qui che Re:B è partita, perché le storie di molestie nel settore pubblicitario emerse nel corso dell’estate hanno ormai scoperchiato un vaso di Pandora che ha un nome preciso: cultura patriarcale.

Dopo l’intervista al pubblicitario Massimo Guastini rilasciata a Monica Rossi – pseudonimo di un professionista che attraverso il suo profilo Facebook intervista esperti nel settore della comunicazione – si è innescato un vero e proprio dibattito sui casi di molestie nelle agenzie pubblicitarie, che ha portato all’uscita allo scoperto moltissime donne.

Il racconto delle molestie

Nel racconto, tra i molti orrori è emersa la storia di una chat “la chat degli 80” presente in una nota agenzia pubblicitaria, in cui gli uomini etero dello staff erano soliti commentare in maniera oscena e violenta i corpi delle colleghe. La storia della chat era già emersa nel 2020 nel podcast Freegida – #5 È solo un’altra stupida storie di molestie – che, senza fare nomi, aveva raccontato l’esistenza della “chat dei maschi”.

Con il caso che esplode sui social l’estate scorsa, Tania Loschi, Giulia Mandalà, Sara Rruga Dervishi, Linda Codognesi e Zahra Abdullahi fondano il collettivo Re:B, dopo aver raccolto spesso in forma anominima testimonianze e racconti di molestie e episodi sessisti.

Da Freegida all’intervista di Guastini passano tre anni, il quadro rimane immutato ma le testimonianze rompono gli argini del silenzio: a raccoglierle, spesso in forma anonima, è stata Tania Loschi,  oggi co-founder del collettivo Re:B

Rebellion, Rebuilding, Rebooting

Il colletivo Re:B – Rebellion, Rebuilding e Rebooting, non solo punta a denunciare il problema sistemico che pervade il settore pubblicitario, ma vuole decostruire il sistema culturale che ne è alla base. “Ogni fase si concentra su un micro obiettivo: Rebellion è la fase di denuncia in cui facciamo sentire la nostra voce e quella delle altre persone che hanno subito molestie e abusi in ambito pubblicitario. È il momento in cui manifestiamo il problema e chiediamo al settore di prenderne atto e di assumersi la responsabilità del cambiamento. La fase di Rebuilding è quella in cui lavoriamo con le istituzioni e le agenzie per ricostruire il sistema marcio offrendo loro attività e servizi in cui supportiamo chi ha subito abusi e molestie. La fase di Rebooting è quella in cui – a cambiamento avviato –  monitoriamo i risultati e se gli strumenti messi a disposizione stanno funzionando e, nel caso, dove intervenire” spiega Tania Loschi, pubblicitaria freelance che ha raccontato la sua esperienza di abusi su Instagram.

A ogni azione prevista afferiscono precisi servizi che il collettivo mette a disposizione. Oltre al supporto legale gratuito, Re:B punta ad offrire supporto psicoterapeutico a prezzo calmierato e spazi dove le persone che hanno subito violenze possano condividere la loro testimonianza. Un form attraverso cui raccontare la propria esperienza – che richiede l’esplicito consenso di chi lo compila riguardo ad anonimato e alla possibilità di essere contattati dalla stampa – ma anche un canale Telegram dove mettere a sistema storie diverse e ritrovare la consapevolezza di avere una rete di supporto alle spalle.

Inoltre, per condividere le esperienze e riplasmare un nuovo futuro insieme alle persone coinvolte, Re:B dedica un workshop gratuito con Spazio Libellula dell’omonima Fondazione  –  non solo a chi ha subito violenza ma anche a chi l’ha perpetrata. “Crediamo che solo attraverso un approccio basato sull’autenticità, sul dialogo aperto e sulla presa di coscienza e responsabilità si possano davvero creare connessioni profonde che valorizzino le esperienze di tutti e tutte”, spiega il team di founder.

I numeri delle testimonianze

Da quando è nato, a inizio luglio, il collettivo ha individuato il coinvolgimento di più di 200 entità (tra agenzie e persone che molestano e abusano colleghi e dipendenti). Le testimonianze provengono da diverse agenzie. Il discorso si è ormai allargato ad altri settori.

Minacce, abusi, atteggiamenti sessualizzanti e oggettivanti alimentano un sistema che vede le donne come strumento di piacere o di scambio tra professionisti uomini: cene di lavoro dove vengono invitate solo le persone più attraenti, in cui le foto vengono scattate di nascosto e condivise senza consenso, sono solo una parte delle pratiche sistemiche e da gregge di cui molti uomini sono artefici o in cui si sono trovati coinvolti per aspettative di genere e giochi di potere. Non fa differenza: ad accomunarli il fatto che pochi di loro oggi si uniscono alle colleghe nel testimoniare e assumersi responsabilità.

Le chat al maschile

In almeno 10 di queste agenzie esiste o è esistita in tempi recenti una chat di solo uomini il cui scopo era commentare, sessualizzare e umiliare le colleghe. “Questo dato, come altri che abbiamo raccolto e analizzato, è una stima per difetto visto che le testimonianze maschili di denuncia – o autodenuncia – sono meno del 10% del totale ricevuto. Sappiamo che il problema ha radici profonde sia nel tempo che nella sua manifestazione. La prima denuncia che abbiamo raccolto risale al 1989”, specifica il team di founder.

Le scuole di comunicazione non sono immuni al fenomeno. Le segnalazioni ricevute a riguardo riportano epiloghi allarmanti: “Possiamo affermare che la normalizzazione del problema parte anche dalle scuole di settore: in un’età compresa tra i 19 e i 23 anni, le persone che vengono sottoposte alla cultura maschilista e sessista, una volta sbarcate in agenzia, saranno – purtroppo – già abituate a queste dinamiche”. Nove segnalazioni su dieci sono state fatte da donne che hanno condiviso esperienze personali accadute a loro stesse o a cui hanno assistito. Questo rende le donne le prime vittime di molestie nelle agenzie di comunicazione.

Il fulcro a Milano

La città più coinvolta è Milano, a causa della concentrazione di agenzie sul territorio, ma il problema non conosce limiti e tocca altre città come Torino, Roma, Bologna e Ancona. “Un altro dato allarmante è la paura di denunciare, soprattutto in una posizione di lavoro attuale: seppur in forma anonima, la maggior parte delle persone ha il terrore di essere identificata e di subire altre forme di violenza, come il mobbing – afferma Loschi – denunciare a volto scoperto è un privilegio che non tutti e tutte possono permettersi. Alcune delle persone che hanno denunciato, lavorano ancora nell’agenzia in cui denunciano i fatti. Altre hanno pure denunciato alle HR interne, quindi sanno benissimo che sono esposte e che potrebbero per questo subire nuovi attacchi\ritorsioni o provvedimenti. In Italia le vittime, soprattutto se donne, non vengono credute e viene sempre messa in dubbio la loro moralità. Anche per questo è molto difficile denunciare. Sai che andrai incontro alla gogna pubblica o a un secondo tipo di violenza: non essere creduta”.

Le segnalazioni catude nel nulla

Nel quadro generale, un dato lascia sperare: alcune testimonianze hanno segnalato di aver denunciato a superiori, colleghi o HR la molestia subita e di aver ricevuto supporto e un intervento di condanna immediato. Ma non basta. 

“Questi esempi sono ancora troppo pochi e ci confermano che la denuncia è uno strumento sicuramente necessario ma che non può essere la soluzione al problema – aggiunge Loschi – Nel nostro settore purtroppo non esiste un organo specializzato a cui rivolgersi. Dentro le agenzie, gli strumenti forniti sono spesso visti con diffidenza (perché proposti dalle stesse persone e dalla stessa azienda in cui queste cose succedono). Il problema principale, che riguarda altri settori e la nostra società in generale, è che c’è poca consapevolezza su cosa sia una molestia: molte donne mi hanno scritto in DM dopo aver letto le storie di altre donne dicendo questo è successo anche a me, ci sono stata male ma senza capire che fosse una molestia. Adesso non permetterei mai più a qualcuno di dirmi\farmi queste cose”.

Partire dal riconoscimento per decostruire il sistema: “Abbiamo aperto molti tavoli con persone che si occupano non solo di molestie sul luogo di lavoro, ma anche di gender equity e diveristy&inclusion. Il nostro obiettivo non è distruggere ma ricostruire il settore che amiamo (e in cui lavoriamo) dalle fondamenta, per farlo abbiamo bisogno di alleanze e collaborazioni” sostiene il team di founder di Re:b.

Il re è nudo. Sessismo, misoginia e violenze non sono eccezioni, ma ordinaria routine. Lo dimostrano le testimonianze che si sono fatte spazio denunciando le molestie subite, nonostante il perimetro della discussione fosse già ingombrato dalle voci del “not all agency”, per cui “non tutte le agenzie sono così”. Ma dire “noi non siamo così” non basta e depotenzia la decostruzione di quello che è un problema culturale. Nominarlo per dargli esistenza: così è possibile continuare a tenere alta l’attenzione sul tema, allargando le riflessioni ad altri ambienti in cui situazioni simili non devono fare più paura.

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Se stai subendo molestie, stalking, violenza verbale o psicologica, violenza fisica puoi chiamare per avere aiuto o anche solo per chiedere un consiglio il 1522 (il numero è gratuito anche dai cellulari). Se preferisci, puoi chattare con le operatrici direttamente da qui.

Puoi rivolgerti a uno dei numerosi centri antiviolenza sul territorio nazionale, dove potrai trovare ascolto, consigli pratici e una rete di supporto concreto. La lista dei centri aderenti alla rete D.i.Re è qui.

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