Etnocentrismo: perché paragoniamo le altre culture alla nostra

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Hai mai pensato che dare il permesso a un uomo di avere più mogli sia una pratica sessista?

A me è successo, e più di una volta. Ho il ricordo vivido di una delle tante conversazioni avute con mio padre proprio su questo. Sono nata in una famiglia “mista”: mia madre è italiana e cattolica, mio padre proviene dalla Costa d’Avorio ed è musulmano. La mia famiglia paterna è enorme: 13 tra fratelli e sorelle e una moltiplicazione di cugini. È una famiglia cresciuta con un padre (mio nonno) e tre madri (una delle quali mia nonna). Mio nonno aveva tre mogli.

Per i valori e l’ideologia con cui sono cresciuta non c’è spazio per la poligamia, tantomeno per una poligamia maschilista. Non c’è neanche una parte di me che può considerare questa pratica moderna o evoluta. E per questo ho deciso di parlarne con mio padre. È stata una delle migliori conversazioni della mia vita per tanti motivi, ma soprattutto perché è in quel momento che ho realizzato di ragionare in modo etnocentrico.

L’etnocentrismo è la tendenza a mettere al centro la propria etnia, comparando usanze, valori, azioni, con gli standard occidentali. Il primo a rendere popolare questo bias (pregiudizio inconsapevole) fu il William Graham Sumner, professore di Scienze Politiche e Sociali all’Università di Yale, che nel 1906 definì l’etnocentrismo:

La tendenza a utilizzare i propri standard non solo come generali, ma come migliori rispetto a quelli di tutti gli altri.

Parlando con mio padre quella volta ho capito che la possibilità di avere più mogli non ha origine in principi maschilisti, ma nel concetto di “amore”. Amore per me significa “sei l’unico/a per me”, significa intimità, cura, fedeltà, unicità. Per mio nonno, mia nonna e per la cultura di mio padre amore significa “Mi prendo cura di te e della famiglia. Se ne ho la possibilità economiche mi prenderò cura di un’altra donna. E se mi sarà possibile, mi prenderò poi cura di un’altra donna ancora”.

Chi è dalla parte giusta della storia?

Arrivata a questa consapevolezza mi sono trovata di fronte a un bivio. Posso io sindacare il significato profondo attribuito all’amore da un’altra cultura, etnia o religione? Sì, posso. E perché? Perché la mia prospettiva è più moderna, più evoluta.

Ma poi è subentrato un altro pensiero: più moderna, più evoluta rispetto a chi? Chi lo ha deciso che sono io, tra me e mio padre, quella dalla parte giusta della storia? Chi lo ha deciso che sono io ad essere, sempre e comunque, dalla parte giusta della storia?  Sentirsi al centro del mondo è spesso necessario per giustificare investimenti costosi, per costringerci a dare senso a scelte politiche o a perseguire i nostri interessi.

La verità è che non osserviamo la realtà per come è, ma per come siamo noi. Abbiamo spessi occhiali per guardare la mappa, ma siamo ciechi rispetto al territorio. Eppure pensiamo che quella mappa rappresenti tutta la realtà.

E l’ho capito bene durante quella conversazione con mio padre. Questo non vuol dire che io sia scesa a compromessi con i miei valori, che abbia rivalutato il mio personalissimo significato di amore o che concordi con il suo punto di vista. Ma ho ascoltato sinceramente e ho compreso con trasparenza. Sono scesa dal piedistallo. Ho osservato la realtà da un’altra prospettiva e ho compreso cose che non mi ero mai data il permesso di capire o di vedere.

Osservare la realtà con occhi nuovi

Da quel momento non ho mai smesso di osservare la realtà con occhi diversi e sentire dentro di me una nuova competenza: ho imparato a non essere etnocentrica. Ma non ci riesco sempre. Perchè osservare con sincerità una realtà che non ci rappresenta, spesso, fa paura.

E per questo liberarsi dall’etnocentrismo non è semplice. È innestato nelle nostre radici e nella nostra storia. Invischia in modo impercettibile valori personali (ciò che è moralmente giusto e ciò che è irrimediabilmente sbagliato) e realtà culturale (ciò che è giusto o sbagliato per gli altri). Significa sentirsi scomodi nell’indossare scarpe diverse dalle proprie.

Sfidare l’etnocentrismo, però, non è impossibile. Possiamo imparare a intercettarlo nella nostra quotidianità, farci un paio di domande, e se proprio siamo coraggiosi possiamo provare a fare un passo un po’ più in là, per uscire dalla nostra zona di comfort fatta di valori e ideologie occidentali. Per agire un po’ di relativismo culturale. Proprio come ho fatto io durante quella conversazione con mio padre.

  • Andare oltre i titoli sensazionalistici.

“Il 90% della popolazione mondiale ha sofferto di depressione”

Depressione non significa la stessa cosa in Cina, Stati Uniti o Zimbawe. Leggendo un titolo come questo non possiamo saperlo, ma possiamo domandarcelo.

  • Fare attenzione al linguaggio

Le accezioni “Paesi sottosviluppati, del Terzo Mondo”  danno per scontato che ci sia un mondo sviluppato e un primo mondo, poi tutti gli altri.

Oppure l’espressione “le persone di colore” presuppone l’esistenza di un colore neutro. Il bianco è il riferimento, il resto una gradazione.

  • Stare alla larga da prodotti o servizi “culture free”

Quando leggiamo “culture free”, significa che quel prodotto o servizio funziona allo stesso modo su tutti e ovunque, è universale. La verità però è che niente funziona allo stesso modo per tutti e man mano anche i ricercatori se ne stanno rendendo conto.

Ad esempio uno studio ha dimostrato che alcune pratiche di cura non funzionano in alcuni Paesi non occidentali in quanto non si adattano ai parametri socio-culturali locali. Questo perché i farmaci sono spesso sperimentati solo su campioni occidentali. Lo stesso vale per la formazione medica e infermieristica: ai nostri dottori viene insegnato solo a relazionarsi con pazienti medi, quindi occidentali.

Questo problema è presente nel settore sanitario, ma anche, ad esempio, nelle ricerche di mercato.

  • Promuovere iniziative di volontariato non assistenzialiste

“Dona i valori più importanti del Natale, quelli sanitari” è solo un esempio. Che la sanità sia la priorità è un punto di vista, non una certezza. L’ho imparato nelle mie esperienze di volontariato in Tanzania: la quantità (e quindi durata) della vita non è un valore universale. L’Africa è molto grande e non è composta solo da bambini in fin di vita. Non tutte le comunità cercano supporto medico perché non tutte credono che sia la durata della propria vita a fare la differenza.

  • Evitare di parlare a nome di qualcun altro

“Se fossi in quella donna musulmana, se fossi in quel ragazzo ghanese..” ad esempio, è un allarme tipico di etnocentrismo. La verità è che siamo chi siamo e non possiamo essere qualcun altro. Il senso della vita, della morte, degli odori, delle feste, non può essere rimpiazzato così facilmente. In un “se fossi..” c’è la presunzione di sapere cosa, dalla nostra prospettiva occidentale, sia giusto o sbagliato per tutti gli altri.

“Indossare il velo è una privazione della libertà individuale” è un assolutismo preceduto da una visione occidentale del femminismo (nel caso in cui indossare il velo non sia un’imposizione, naturalmente). Siamo sicuri che libertà individuale significhi poter mostrare i propri capelli? Difficile rispondere, se non siamo noi a portare il velo.

La chiave, comunque, è fare un passo di lato e assestarci lì, per non sentirci sempre al centro.

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  • Paolo Catucci |

    Osservazioni giuste e profonde, su cui innesterei un altro aspetto, che è quanto gli usi e costumi dei popoli siano il frutto di una libera e cosciente accettazione o il frutto di una disinformata e acritica imposizione. Questo, ovviamente, vale per tutti, anche per noi occidentali.

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