Giuliana Campanella scelta per il Capgemini Women in Rugby Leadership Programme 2023

Dall’anonimato alla ribalta. Il rugby femminile, in Italia, è stato protagonista di una vera rivoluzione culturale. La prima testimonianza risale al 13 aprile 1980. Era una domenica mattina e, su un campo bonificato della provincia di Treviso, la squadra trevigiana affrontava il Cus Milano. Finì 8 a 4 per le venete.

Due anni dopo, nel 1982, da quel gruppo nacque la selezione femminile della Benetton Treviso. Tre anni dopo, nel 1985, la UISP (Unione Italiana Sport per Tutti) istituì il primo campionato italiano di rugby femminile. E, a seguire, la prima squadra nazionale, che debuttò il 30 giugno dello stesso anno nella sua prima partita internazionale, contro la Francia (0-0), su un campo di calcio riadattato al rugby. Non furono importanti le condizioni in cui si giocava, contava solo esserci. Quel giorno, infatti, si scrisse la prima pagina di storia della palla ovale femminile italiana.

Un placcaggio contro il pregiudizio

Alla fine degli anni settanta, il Veneto è la prima regione a vedere la nascita e lo sviluppo di un movimento rugbistico femminile. Quasi contemporaneamente, si aggiungono le piazze di Milano, Roma, Bologna, Benevento e Messina. Tutte unite dalla voglia di “placcare” il pregiudizio e l’ostilità di un mondo sportivo esclusivamente maschile. Ed è proprio nella città siciliana che comincia l’avventura umana e professionale di Giuliana Campanella, Team Manager della Nazionale Femminile di Rugby a 15 e 7 e Direttrice Tecnica del Messina Rugby, scelta come rappresentante italiana per il Capgemini Women in Rugby Leadership Programme 2023, una borsa di studio ideata per supportare la formazione e leadership femminile e promuovere l’uguaglianza di genere.

Come ti sei avvicinata per la prima volta al rugby?
Per caso. Ero adolescente e vivevo a Messina, che ha una tradizione maschile nel rugby. Stavo cambiando casa, spostandomi dalla città verso la campagna. In quel periodo venni a sapere che era nata da poco una squadra femminile. Mi sono avvicinata per curiosità, trovandomi a giocare su un campo dismesso che oggi non si frequenterebbe mai. Però mi sono innamorata di questo sport, perché mi ha fatto sentire libera ed è scattato qualcosa che ancora oggi mi tiene così fortemente legata.

Che ruolo ha avuto il tuo primo allenatore?
Importantissimo. Era un uomo dalle idee molto chiare sullo sport e con una mentalità aperta.

Che ricordi hai della tua ultima partita in Nazionale?
Non è facile smettere a 35 anni, anche se per una donna rugbista è un’età quasi al limite. Ricorderò sempre l’abbraccio di tutta la squadra e gli applausi del campo.

Guardando indietro alla tua lunga carriera, c’è qualche desiderio che non hai realizzato o è andato tutto come avevi sognato?
Considerando da dove ho cominciato, direi che ho fatto di tutto e di più. Mi sarebbe piaciuto vincere una finale scudetto perché l’ultima che ho giocato l’ho persa. Ma come donna ho fatto il massimo che si potesse fare in quel periodo, compreso l’aver giocato in Nuova Zelanda. Perché mi sono sposata lì e tra un figlio e l’altro giocavo.

I tuoi figli giocano a rugby?
Si. Il maschietto ha iniziato a giocare a 4 anni in Nuova Zelanda, mentre mia figlia partirà il prossimo anno proprio per la Nuova Zelanda per fare un’esperienza rugbistica e umana diversa.

Com’è il rugby in Nuova Zelanda?
Ha la stessa importante del calcio da noi, con la differenza che non c’è disparità tra uomo e donna. Io, per esempio, quando ho giocato lì non mi sono mai sentita inadeguata o ho mai pensato di esserlo. I club sono apertissimi alle ragazze, anzi le vanno a cercare. Ai miei tempi c’erano già due squadre femminili, una per la serie A e l’altra per la B.

Dal 2014 sei Team Manager della Nazionale Italiana femminile: come si è evoluto il rugby rosa in questi anni?
Se prendiamo come riferimento i miei inizi, direi che c’è stata una grandissima evoluzione, anche grazie alla visibilità dei mass media negli ultimi anni (vedi le partite trasmesse, ndr). E poi c’è la Nazionale che ha cominciato anche a vincere le partite. Nel 2017 siamo arrivate seconde al Sei Nazioni dietro il Regno Unito e siamo reduci dal Mondiale 2022 in Nuova Zelanda dove siamo stati in gara per 45 giorni raggiungendo un quarto di finale storico.

Quanto è stato difficile per te (se lo è stato) dover combattere il pregiudizio del “rugby sport maschio”?
Quando ho iniziato a giocare io, nessuna sapeva cosa fosse il rugby, che veniva scambiato per il Football Americano. A me piaceva molto la competizione perché in un certo senso è uno sport da combattimento che rispecchia un po’ il mio carattere. Al sud c’erano Messina e Catania che muovevano i primi passi importanti, e c’eravamo noi che giocavamo a rugby perché ci piaceva farlo. In Italia sono stati fatti passi da gigante. La Federazione si è impegnata tantissimo e continua a farlo. Ogni tanto vedo che qualche genitore ha un po’ di timore nel mandare un figlio o una figlia al campo, ma più si fa conoscere questo sport e se ne parla, più questo timore svanisce.

Che ruolo ha avuto il Rugby nella tua formazione extra sportiva?
Fondamentale, per le sue regole e i valori. Quando si dice che è un gioco di squadra, lo è per davvero. Dentro e fuori dal campo. Si lavora e si vive insieme per raggiungere degli obiettivi. C’è una componente di disciplina che si può applicare nella vita quotidiana, concetti che andrebbero insegnati anche a scuola.

A proposito di gioco di squadra, quanto conta in un team la collaborazione e come si trasferisce questo know-how sportivo nella vita quotidiana?
Come persona non sono una che parla tanto. Anche quando giocavo, ed ero Capitana, difficilmente parlavo. Ma quando lo facevo, o con una parola o con un cenno riuscivo sempre a farmi capire. Credo che attraverso l’esempio si possa fare tanto, e ne ho riscontro nel mio lavoro quotidiano di allenatrice. I bimbi sono delle spugne, imparano in fretta. Come accennavo poco fa, lavorare in gruppo nel rugby ha un significato più profondo, si diventa davvero una famiglia e si creano dei rapporti solidi che nella vita diventano utili a raggiungere obiettivi che altrimenti non raggiungeresti mai.

Parlando di leadership, la tua partecipazione al Capgemini Women in Rugby Leadership Program 2023 come rappresentante per l’Italia, è sicuramente un valore aggiunto nel tuo percorso professionale. Cosa ti aspetti di ricevere da quest’esperienza e quanto credi sia utile al tuo lavoro di formatrice di giovani leve?
Durante il periodo del Covid ho partecipato a un forum sulla leadership e oggi sono felicissima di poter partecipare a questa borsa di studio che reputo utile a potenziare le mie competenze e creare più confidenza per potermi rapportare con altre donne, confrontarmi e arricchirmi ulteriormente. E poi, in un futuro e potenziale cambio di ruolo, queste nuove competenze potrebbero aiutarmi a far crescere il mondo femminile rugbistico in generale. Credo che più si potenziano le competenze e più si riesce a trasmettere il proprio bagaglio di esperienze tecniche ed umane.

Nel tuo lavoro quotidiano di allenatrice di squadre giovanili, come insegni il concetto che in campo vince la squadra e non le singole individualità?
Sono cose che si apprendono pian piano, durante il percorso sportivo. Da piccoli ci si appassiona allo stare insieme che viene alimentato giorno dopo giorno. Col tempo si capisce che il lavoro di gruppo paga, e che la meta che viene fatta dal passaggio del compagno ripaga se stessi ma soprattutto l’intero gruppo di lavoro. In particolare nei giovani, dove il divertimento deve essere al primo posto perché è la base per formare donne e uomini migliori.

Secondo te cosa c’è nel rugby che piace tanto alle ragazze?
Il rugby riesce a tirare fuori prepotentemente tutto il carattere della donna, perché è uno sport che esalta la determinazione e la voglia di mettersi in gioco. Quando le donne giocano a rubgy, si vede subito che si sentono libere nel loro ambiente naturale.

Libro preferito sulla leadership femminile?
Ho iniziato da poco “Essere Leader” di Daniel Goleman, perché ho seguito alcuni suoi interventi proprio durante il Covid mentre partecipavo al Forum sulla leadership a cui accennavo prima.

Terzo tempo: Birra artigianale o Malvasia delle Lipari?
Birra artigianale.

E se diciamo Olimpiadi?
E’ la nostra massima aspirazione. Avremo la possibilità di qualificarci a Cracovia dal 24 al 28 giugno. Incrociamo le dita.

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Leader femminili nel rugby

Il Capgemini Women in Rugby Leadership Programme nasce nel 2018 per aiutare le donne a sfruttare appieno il loro potenziale, supportandone la crescita personale e professionale con l’obiettivo portare più donne in posizioni apicali all’interno dei movimenti e delle associazioni regionali rugbistiche. Promuovere la diversità a livello globale, in particolare nella leadership, è una componente fondamentale del piano strategico di World Rugby “Accelerating the global development of women in rugby 2021-25“. Attraverso la creazione di una pipeline di leader femminili nel mondo del rugby, il programma contribuisce ad incrementare la parità di genere e a garantire maggiori opportunità per le donne, a tutti i livelli.

Fino ad oggi, sono state sessantuno le donne ad aver beneficiato direttamente del programma, andando a ricoprire ruoli di governance a livello locale, nazionale e regionale e trasmettendo le loro conoscenze ed esperienze alle generazioni successive.

Le altre borsiste della classe 2023 del Capgemini Women in Rugby Leadership Programme sono: Angella Camille “Acee” San Juan (Filippine), Beatriz Futuro Muhlbauer (Brasile), Faamoana Leilua (Australia), Maria Samson (Canada), Marie Stella Gakima (Burundi), Natalie Kurtanidze (Georgia), Nicole Acevedo Tanguerife (Colombia), Sanaya Mehta (India), Dr. ‘Unaloto Sili (Tonga), Zakia Kulabako (Uganda) e Zhenya Allain (Santa Lucia).

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