“Posso fare a meno di passare le giornate in un ambiente tossico: lavoro molto meglio da solo, sono più produttivo e più sereno. Amici e relazioni li cerco altrove“.
Questa è in sintesi la risposta che molte persone danno quando si mette in discussione la possibilità di lavorare sempre da remoto. Si parlava di smart working anche prima del covid, principalmente menzionando i vantaggi di tempo del non doversi spostare ogni giorno e i rischi di “mancato controllo” percepiti da parte dei manager. Adesso però siamo passati di categoria: la traumatica esperienza del lock down forzato dei primi mesi – per molti si è trattato anche di anni – ha fatto emergere la capacità adattiva della natura umana: abbiamo trovato tutti i vantaggi presentati da questa improvvisa rivoluzione.
Ma stiamo rischiando l’effetto opposto: quello di non darci la possibilità di confrontare le due esperienze e di distillare il meglio di entrambe, progettando e costruendo una terza via. Non siamo quelli di prima ma non siamo nemmeno “ancora” una nuova tipologia di lavoratori: siamo per ora solo il risultato di una reazione d’emergenza che si sta trasformando in sistema, e sarebbe il caso di rallentare. Già dieci anni fa Lynda Gratton, nel best seller “Il salto”, configurava un mondo del lavoro fatto interamente da micro-imprenditori di sé stessi, sempre in movimento tra progetti, e ne metteva in evidenza il rischio di isolamento, la criticità di mantenere alto il livello di networking.
Passiamo due terzi del nostro tempo da svegli lavorando: è impossibile ignorare che si tratta di una quantità di tempo cruciale per lo sviluppo di una rete relazionale e di un senso di identità, ed entrambe le cose dipendono dalle relazioni che il lavoro crea.
Identità e lavoro
Non siamo il nostro lavoro, certo, anche questo è un commento che si è sentito fare parlando di remote working e relazioni, ma mettiamo molto di noi nel nostro lavoro e il nostro lavoro è frutto di ciò che sappiamo fare: una professione che non dà conferme su queste dimensioni provoca un affaticamento che si traduce facilmente in insicurezza, distacco, demotivazione.
Il lavoro da remoto può soddisfare questo bisogno, oppure possiamo semplicemente dire che non lo abbiamo più, o che lo soddisferemo altrove?
Non esiste una risposta esatta, così come non esiste ancora una definizione condivisa del nuovo modello di lavoro ibrido che potremmo avere, e qui sta l’opportunità. Di certo sappiamo quel che succede negli ambienti di lavoro cosiddetti tossici: le relazioni tra le persone provocano l’effetto opposto a quel che sarebbe utile, generando cali di produttività e, quel che è più grave, malessere, assenteismo, problemi psicologici. Tra esseri umani, possiamo farci molto bene o molto male, e il bias di conferma oggi ci porta a ricordarci soprattutto ciò che dello stare insieme in ufficio faceva male, mentre rafforziamo ogni giorno la lista di benefici che derivano dal non uscire di casa.
Amici di lavoro
Se quelle con i colleghi non devono necessariamente definirsi amicizie – anche se, secondo l’istituto di ricerca Gallup, tre persone su dieci dicono di avere il proprio migliore amico sul posto di lavoro, e non è poco – sono comunque “legami”. La parola “collega” viene proprio da “legare con” o “riunire con”, presupponendo una vicinanza di qualche tipo.
D’altronde dove, se non nel ruolo lavorativo, passiamo così tanto tempo con persone di provenienze così distanti da noi che condividono con noi uno scopo comune? E dove siamo altrettanto dipendenti dal contributo degli altri?
Si domanda il CEO di Gallup, Jon Clifton, sull’Harvard Business Review. Secondo Gallup, già oggi, a soli tre anni dall’inizio della pandemia, è sceso di cinque punti il numero di persone che dichiarano di avere un migliore amico al lavoro, mentre 300 milioni di persone nel mondo dicono di non avere nemmeno un amico.
Se l’amicizia è la relazione più profonda, pensiamo a tutte le altre relazioni che formano la tela della nostra identità professionale: con i colleghi ma anche con i clienti e i partner, siamo certi che possano fare a meno della presenza fisica? Pensiamo all’efficacia di un incontro di persona quando vogliamo vendere qualcosa a qualcuno, e quanto invece sia difficile farlo via zoom. Che cosa manca? In teoria dovrebbe esserci tutto quel che serve: ci vediamo, ci ascoltiamo, condividiamo slide. Eppure si perdono tutti quei segnali non verbali che il bravo venditore sa trasformare in ascolto e poi fiducia, e che spesso fanno la differenza sull’esito dell’incontro.
Insieme no, da soli no
Se invece iniziamo subito a difendere a spada tratta la possibilità di fare tutto davanti a un PC, indipendentemente da dove quel PC si collochi, perdiamo un’occasione d’oro per distinguere la paglia dal grano e per lavorare su quel che vogliamo conservare, magari trasformandolo adeguatamente, del “vecchio mondo”. Non fa la differenza solo sull’efficacia di un incontro, la possibilità di stare insieme fisicamente, ma anche sull’energia che produciamo quando mettiamo il cappello del lavoratore, e che ha bisogno di essere prodotta per essere scambiata con l’energia che produciamo nei nostri molti altri ruoli.
Quel crogiuolo di emozioni che ci fa arrabbiare, gioire, annoiare, sorprendere, seccare quando siamo insieme ad altre persone, possiamo certo andare a riempirlo altrove, ma dobbiamo essere consapevoli che così facendo lasciamo un vuoto in una parte rilevante delle nostre vite. Forse non è necessario: forse possiamo avere il meglio di entrambi i mondi. Forse possiamo lavorare in un modo ancora diverso, che ci liberi dalla tossicità senza privarci dell’identità e delle relazioni, che ci responsabilizzi e ci lasci flessibilità senza rinunciare allo sforzo che oggi ci tiene insieme intorno a missioni condivise. Senza rinunciare, insomma, al senso di appartenenza di cui ci arricchisce il fatto di avere un lavoro.
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