Disabilità e diritti, la lotta di Valentina Tafuni per passare dalla carità alla giustizia

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Nella sua esperienza ha toccato con mano gli ostacoli e le barriere che le donne incontrano quando tentano di rompere il soffitto di cristallo, sperimentando una doppia discriminazione nell’essere donna e con disabilità.

“Su di lei ricadono stigmi, che la vedono bisognosa di cure con una negazione di accesso al lavoro e priva di diritti sessuali, oppure vittima di pietismo o eroismo”.

Inizia così la storia di Valentina Tafuni, giovane volontaria di One, impegnata in prima linea per combattere in difesa dei diritti umani. One è un movimento globale di attivismo focalizzato sull’abolire la povertà estrema entro il 2030, perché nel mondo sia possibile condurre una vita dignitosa e avere le stesse opportunità. Co-fondata tra gli altri da Bono Vox e Bill Gates, mobilita 9 milioni di membri in tutto il mondo per aumentare l’attenzione dei policy makers verso il contrasto alla povertà estrema, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, e alle malattie come malaria, tubercolosi, Aids e ora il Covid: fanno pressione sui governi attraverso azioni di lobbying e campagne dal basso.

L’impegno di Valentina
Valentina Tafuni scopre da giovane l’interesse per la scrittura, la politica e la difesa dei diritti sociali e civili. Attualmente è presidente della onlus Hayatonlus, associazione nata nel 2017 con l’obiettivo di creare collegamenti tra l’Europa, l’Italia e le principali aree di migrazione a livello globale. Da anni è impegnata come attivista sui diritti dei profughi di guerra, in particolare delle donne profughe dal conflitto siriano, come per i diritti delle persone con disabilità, della parità di genere, dell’educazione alla cittadinanza globale e dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

premiazionePer Valentina essere un’attivista è un’esperienza multilivello. Dal 2016 al 2018 è stata selezionata come giovane ambasciatrice italiana di una campagna di One, esperienza che le ha consentito di interfacciarsi con rappresentanti del Parlamento Europeo, della Camera dei Deputati, del Senato, del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, contribuendo allo sviluppo di consapevolezza dei cittadini con l’organizzazione di conferenze e incontri nelle strade, nelle aule delle scuole, nei luoghi di condivisione.

Nel dicembre del 2020 è stata insignita del Premio istituito dal Comitato Interministeriale per i Diritti Umani – CIDU del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale – in ragione del suo impegno. Ha organizzato campagne nelle scuole come educatrice e attività di multiculturalità nella sua associazione: un’ esperienza molteplice, legata dal filo rosso della lotta in ogni luogo per la promozione dei diritti delle donne con disabilità.

E’ necessario capire il proprio spazio di azione – dice Valentina – rivalutare il concetto di prossimità. Per rispettare i diritti umani non serve solo scrivere carte, ma ognuno di noi può incidere sulla loro applicazione partendo da ciò che è più vicino, nella realtà di un’interdipendenza globale dei destini“. Oggi è impegnata in One in qualità di “ambadassor”, mentre come presidente dell’associazione Hayat attiva servizi per persone vulnerabili che hanno bisogno di strumenti pragmatici come lo sportello casa, i corsi di lingua, per accedere alla vita indipendente di persone migranti che arrivano in Italia e non riescono a integrarsi.

premiazione2“Bisogna passare dal senso di carità alla giustizia, attraverso il cambiamento culturale – sottolinea Valentina – La giustizia deve essere finalizzata a sostenere l’empowerment della persona nell’emergenza, dare possibilità di godere delle risorse naturali e del pianeta con diritto al lavoro non forgiato dalla diseguaglianza”. Cerca così di applicare l’intersezionalità, un concetto che può essere descritto come l’aumentare le potenzialità dell’essere umano, senza  prescindere dal fatto che persone vulnerabili devono avere voce, non essere sole. “E’ necessario essere inclusivi e intersezionali in ogni ambito – precisa – anche a livello di rappresentanza, dove non sempre le associazioni riescono a essere”. 

L’aver vissuto in prima persona ostacoli e barriere che esistono per le donne, ha dato a Valentina la possibilità di saper vedere oltre le apparenze“Ho sperimentato il peso su una donna con disabilità, e su di lei ricade uno stigma che ci vede come bisognose di cure – spiega – Il lavoro di cura è addebitato alle donne in genere, che vengono incasellate con un unico destino in una società patriarcale. Siamo viste come delicate, bisognose di essere accudite, con una negazione di accesso al lavoro”.

Nello scenario internazionale la poca visibilità delle donne con disabilità è presente in Paesi in via di sviluppo, soprattutto dove ci sono conflitti come Afghanistan e Ucraina, mentre della situazione nel continente africano ritiene che sono riuscite a mettersi insieme e fare comunità per la mediazione dei conflitti nei Paesi.

Come viene raccontata dai media la disabilità?

“E’ simile a un’usurpazione della voce – descrive Valentina – Ci vuole un’etica delle parole in riferimento alla disabilità delle persone. C’è bisogno di creare connessione con attivisti e protagonisti, impegnarsi a raccontare la disabilità in un’ottica dei diritti umani, in cui ognuno posa unirsi e farlo con le giuste parole e azioni anche nella comunicazione della lotta contro le discriminazioni. Non come vittime del destino, del pietismo, o come dei supereroi, ma con un’igiene delle parole”. Per Valentina significa che bisogna portare alla luce una vita indipendente e avere l’accesso ai diritti primari.

A giugno 300 giovani attivisti si sono uniti in un road show estivo in tutte le città europee, tra cui Roma e Milano. La campagna “GenerAction” incentrata sugli attivisti mira a evidenziare l’impatto delle crisi convergenti di Covid, conflitti e clima sui paesi più vulnerabili e sollecitare i responsabili delle decisioni ad agire ora. Tra loro anche Stepphany Ferreira de Araujo Ulivieri. Originaria del Brasile, negli ultimi nove anni ha vissuto in diverse capitali europee come Berlino, Madrid, Bucarest e attualmente è studentessa del secondo anno di Laurea Magistrale in Scienze dello Sviluppo e della Cooperazione Internazionale all’Università La Sapienza di Roma. Negli ultimi anni è stata impegnata nel volontariato, promuovendo la consapevolezza ambientale e i diritti umani di bambini e giovani nelle scuole e negli ospedali intorno a Bucarest e nelle aree circostanti.

E c’è Ibrahim, originario della Liberia, uno studente di 23 anni attualmente residente a Rimini. Attivo sui diritti dei migranti, l’impegno parte dalla sua storia personale: dopo la morte della madre, ha lasciato la Liberia per trasferirsi in Libia in cerca di lavoro, seppur minorenne. Una volta in Libia, è stato rapito ed è finito in carcere, dove ha svolto i lavori forzati. Tentò di scappare e fu colpito da un colpo di fucile che lo sfregiava e riuscì a evadere di prigione fingendosi morto. Ibrahim viaggia in Italia via mare, arrivando in Sicilia e soggiornando allo SPRAR (Sistema di Protezione Richiedenti Asilo e Rifugiati) “L’albero della vita” di Pachino.

Da lì i dirigenti dello SPRAR lo invitano a scrivere la sua storia e partecipa a DiMMi (Diari multimediali migranti), concorso per promuovere su scala nazionale l’accoglienza, l’integrazione e l’inclusione dei migranti e per la custodia della memoria collettiva e popolare. Ibrahim ha vinto il premio nella categoria “giovani” e da allora porta le sue esperienze personali nelle scuole, nelle università e nelle comunità interculturali, con l’obiettivo di ispirare e motivare i giovani affinché sia possibile per loro realizzare i loro sogni.

In vista del vertice del G7 in Germania che si è tenuto a fine giugno, i giovani attivisti in Europa hanno invitato i leader a riscrivere le regole sulla salute globale e investire nella lotta contro tutte le malattie prevenibili, ricostruire l’economia globale per tutti e rafforzare la resilienza dei paesi vulnerabili alle crisi climatiche e alimentari.

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