Luglio e la parata dell’orgoglio disabile

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Era il 2019 quando ho conosciuto per la prima volta il Senatore Tom Harkin: eravamo al palazzo delle Nazioni Unite a Vienna, in occasione della Zero Project Conference e lui si presentava con questa vignetta

Mi era sembrato un tuffo così lontano nel passato, essere a tavola con la persona che Ted Kennedy negli anni ’90 aveva designato per proteggere i diritti civili di milioni di americani con disabilità: io che nell’estate del 1990 avevo ancora 18 anni e non avevo mai incrociato direttamente la disabilità in quel di Ascoli Piceno.

Eppure dall’altra parte dell’oceano il senatore Harkin conosceva in prima persona le sfide che le persone con disabilità dovevano affrontare e non si stancava mai di ricordare episodi di vita vissuta insieme al fratello Frank, sordo fin dalla prima infanzia. Ma chi si sarebbe immaginato che grazie a quell’incarico il giovane senatore Harkin sarebbe diventato l’autore dell’Americans with Disabilities Act (ADA) del 1990, una legislazione di riferimento per tutti noi, che protegge i diritti civili di oltre 50 milioni di americani con disabilità fisiche e mentali?

Come si è arrivati all’ADA

A volte i grandi cambiamenti sistemici si accompagnano a grandi visionari ma la forza propulsiva di un atto come l’ADA dimostrava a molti che Tom Harkin era stato capace di attivare un effetto domino, un modo di pensare e di governare che risolveva una grande sfida sociale, tanto che una massa critica di persone in quella stessa condizione ne potesse beneficiare, senza limiti temporali o geografici.

La via per arrivare all’ADA non era stata però in discesa, costellata anzi da proteste cittadine che dagli anni ’70 in poi avevano portato le persone con disabilità negli USA a scendere in strada per le proprie battaglie di rivendicazione dei diritti: gli attivisti avevano combattuto per decenni contro la disparità di accesso al lavoro e l’esclusione dalle scuole pubbliche, ma l’ADA non sarebbe mai arrivato alla firma di G.H.W. Bush se non fosse stato per un gruppo di attivisti in carrozzina che all’inizio di quello stesso anno decisero di ‘scalare il Campidoglio’.

90-0312-jenniferkeelan-1Il 12 marzo 1990, centinaia di persone con disabilità si erano radunate ai piedi del Campidoglio a Washington per protestare contro il disegno di legge che procedeva lentamente all’approvazione del Congresso. Decine di persone avevano lasciato le loro carrozzine, si erano inginocchiate e avevano iniziato a scalare gli 83 gradini verso l’ingresso ovest dell’edificio, come in segno di sfida verso i politici all’interno a continuare a ignorare tutte le barriere che incontravano. Tra gli scalatori c’era anche Jennifer Keelan, una bambina di 8 anni di Denver con paralisi cerebrale infantile: “Ci impiegherò tutta la notte se servirà!”.

L’ADA arrivò così all’approvazione il 26 luglio 1990 con l’obiettivo di vietare la discriminazione nei confronti delle persone con disabilità e allora per la prima volta a Boston si tenne il Disability Pride Day, dando vita così al Disability Pride Month.
Da allora, gli eventi del Disability Pride sono stati celebrati nel mese di luglio in numerose città americane, da Los Angeles a New York, fino a Brighton in UK, per approdare in Italia la prima volta nel 2015 a Ragusa, grazie all’attivista italiano Carmelo Comisi. E poi Palermo, Napoli, Roma, quest’anno l’ultimo evento si è celebrato a Milano, ma in tutta Italia c’è un fermento che porta spontaneamente delle comunità di giovani ad aggregarsi intorno a questa stessa causa.

Sebbene l’orgoglio e le parate della disabilità siano un concetto relativamente nuovo e ancora poco conosciuto in Italia, l’idea di Disability Pride è radicata nelle stesse fondamenta di movimenti più noti, come l’LGBTQ+ Pride e il Black Pride.

Ancora oggi si tende a fare confusione con gli altri eventi ‘Pride’, ma il Disability Pride non riguarda l’appropriazione dell’orgoglio LGBTQ+: si tratta di comunità da tempo intrecciate e sopravvissute a lungo sotto simili sistemi di oppressione, ma il Disability Pride riguarda la celebrazione e il recupero della visibilità delle persone disabili in pubblico.

L’intersezionalità dei diritti e l’intreccio di diverse comunità è testimoniato ad esempio dall’attivista e content creator disabile Simone Riflesso che ha recentemente portato avanti un sondaggio ‘SondaPride’ per una prima mappatura dell’accessibilità dei diversi eventi ‘Pride’ italiani: doppia inclusione o doppia discriminazione, sono le due facce di una stessa medaglia.

Ma cosa significa orgoglio nel contesto della disabilità? Per molte persone disabili, vedere queste due parole nella stessa frase rappresenta ancora oggi un concetto nuovo. Le persone con disabilità sono state tradizionalmente fatte sentire ‘mezze persone’, fino a vergognarsi della loro identità disabile all’interno della società civile. Il fatto stesso di poter necessitare di adattamenti o servizi assistenziali per alcune azioni di vita quotidiana può portare a un sentimento di vergogna interiorizzato. Ogni volta che una persona con disabilità o un suo caregiver deve chiedere scusa per aver bisogno di una rampa per accedere a un luogo, o deve spiegare a qualcuno perché ha avuto bisogno di più tempo per completare un test d’esame, si sminuisce l’orgoglio che le persone disabili hanno in sé stesse e nelle loro identità disabili.

Per superare questi sentimenti, è utile guardare al modello sociale della disabilità. Il modello sociale dice chiaramente che la disabilità è una condizione di salute in un ambiente sfavorevole. È l’inaccessibilità l’aspetto disabilitante, non un problema che riguarda l’inadeguatezza della singola persona o di una categoria di individui.

Le battaglie del Disability Pride partono perciò da questa nuova consapevolezza: cambiare il modo in cui le persone pensano e definiscono la disabilità, abbattere e porre fine alla vergogna interiorizzata tra le persone con disabilità e promuovere nella società la convinzione che la disabilità fa parte della diversità umana, diversità di cui le persone che vivono con disabilità possono essere orgogliose.

“Essere disabili ci rende intrinseci risolutori di problemi, pensatori innovativi e ci dà la capacità di vedere il mondo attraverso una lente unica e preziosa”, come ricorda il collettivo Valuable 500 proprio per celebrare gli eventi di questo mese.

E noi cosa possiamo fare, come comunità di alleati, per celebrare questo evento e contribuire a cambiare la percezione delle parole ORGOGLIO e DISABILITA’ nella stessa frase?

Diffondere informazioni validate e aggiornate, affidarci ai dati più che alle singole opinioni, dare voce ai protagonisti, alle loro storie, evitando da narratori di incappare in un linguaggio abilista, pietistico, ispirazionale o semplicemente non rappresentativo della volontà di chi vive questa condizione in prima persona.

Conoscere la storia di questa comunità vuol dire anche conoscerne i simboli che la rappresentano: come la bandiera dell’orgoglio per le persone disabili, che è stata creata da Ann Magill, una donna disabile, dove ognuno dei suoi elementi simboleggia un gruppo diverso della stessa comunità.

bandieraLo sfondo nero rappresenta le persone disabili che hanno perso la vita, non solo a causa della malattia, ma anche per negligenza, suicidio ed eugenetica, e più recentemente per la pandemia da Covid-19. L’emergenza pandemica ha infatti avuto un effetto sproporzionato sulle persone con disabilità, con alcuni studi che stimano che almeno 6 persone su 10 morte a causa del virus negli Stati Uniti fossero disabili. Negligenza da parte degli operatori sanitari, mancanza di misure speciali per prevenire l’esposizione al virus delle persone più fragili, esigenze sanitarie non soddisfatte o trattamenti rimandati perché considerati differibili nel tempo.

Ogni colore sulla bandiera dell’orgoglio disabile rappresenta invece una condizione diversa di disabilità: il rosso per le disabilità fisiche, il giallo per le disabilità intellettivo-relazionali, il bianco per le disabilità invisibili e non diagnosticate, il blu per le neurodiversità, il verde per le disabilità percettive e sensoriali.

bandiera2Ann Magill ha ridisegnato la bandiera nel luglio 2021 sulla base del feedback espresso dalla comunità di disabili che, se visualizzato online (soprattutto durante lo scorrimento veloce), il design originale del fulmine creava un effetto stroboscopico e rappresentava un rischio per le persone con epilessia ed emicrania. Diverse persone hanno collaborato per fornire indicazioni utili e hanno raggiunto un consenso su un nuovo design più accessibile a tutti.

L’approccio inclusivo della bandiera onora il significato stesso del Disability Pride: tutti sono invitati a partecipare, prendere parte e celebrare l’orgoglio di sé stessi e di questa identità, una comunità in azione che si unisce per hackerare una soluzione che funziona per tutti, una buona pratica di ‘inclusive design’.

L’augurio per la comunità italiana è che questo movimento continui a fiorire, che diventi un’occasione concreta per unire nelle battaglie di diritti e non separare, protagonisti e alleati. Il rischio è che sulla scia delle parate più consolidate anche il Disability Pride possa diventare una manifestazione di attivismo performativo, una specie di Burning Man dei poveri, in cui ai diritti si anteponga la visibilità delle grandi aziende salite sul carro della Diversity & Inclusion.

Lo ricordava bene qualche giorno fa in un suo post su Facebook Rebecca Zamperini, persona con disabilità e operatrice nel sociale, riferendosi alla recente parata dell’LGBTQ+ Pride a Milano: “Ho trovato di cattivo gusto non tanto la presenza asfissiante dei marchi e delle aziende, ma che la loro presenza si traducesse in un soffocare delle realtà sociali cittadine“. E conclude riferendosi al ruolo sociale delle aziende, in questi contesti così come nella vita di tutti i giorni: “Perché non puoi decidere di sostenere solo i diritti che puoi sponsorizzare”.

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  • Catterina Seia |

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