“Gli uomini viaggiano, le donne si prendono degli amanti”, secondo lo scrittore Andrè Malraux. Una boutade il cui umorismo non ha superato il Novecento, va detto, ma affonda le radici dentro a una visione dei generi che sorge ben più lontano nel tempo. Basti pensare al mito che vede Ulisse viaggiare per il mondo e compiere grandi imprese, mentre Penelope resta immobile e sopporta l’attesa, simbolo di quella sedentarietà paziente che viene attribuita geneticamente al femminile. In pratica quando l’uomo parte la donna lo aspetta, al massimo può aspirare a essere porto e non nave, luogo di riposo per il guerriero che ritorna dopo aver conquistato terre e onori.
La questione dell’accesso delle donne al viaggio e all’avventura può essere osservata con un’ottica femminista? Il viaggio è da sempre un tema ricorrente in ogni narrazione: è la fase che l’eroe attraversa quando risponde alla chiamata, è il rito di passaggio che gli permette di passare da un prima a un dopo, metaforicamente il punto di rottura con le strutture imposte e il passaggio all’età adulta. Per secoli partire all’avventura è stato un privilegio riservato soltanto agli uomini. I viaggi delle donne sono stati ridicolizzati o addirittura proibiti, in quella polarizzazione dei ruoli associati al maschile e al femminile. Facendo il solito giochino del cercare le differenze semantiche declinando i sostantivi al maschile e al femminile, basti pensare al divario che intercorre tra l’avventuriero e l’avventuriera, oppure, ancora più evidente, tra il passeggiatore e la passeggiatrice. Per cui sì, le lenti femministe, poste anche sul tema del viaggio, possono offrire un punto di vista nuovo e deflagrante. Viaggiare e scrivere dei propri viaggi vuol dire servirsi della propria libertà di movimento, riappropriarsi dei racconti del mondo e, nello stesso tempo, del proprio racconto. Questo è il punto di vista che offre Lucie Azema con il saggio “Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione”, edito da Tlon con la traduzione di Nunzia De Palma.
Attraverso le esperienze e i racconti di molte viaggiatrici, Azema prova (e riesce) a sistematizzare i loro scritti inserendoli in una riflessione femminista più globale. “Disseppellire questi racconti dimenticati è una necessità storica e intellettuale, ma sarebbe una soluzione parziale al problema” scrive. “Il patriarcato ha, in effetti, operato a valle (rendendo le loro storie invisibili), ma anche a monte, rendendo sfavorevoli, a livello materiale, le condizioni di accesso al viaggio”. Accade ad esempio che parte dell’esperienza di viaggio femminile resti sommersa perché non raccontata o vissuta sotto mentite spoglie maschili. Allo stesso tempo proprio il partire, perchè proibito, è un atto di ribellione che richiede una discreta dose di coraggio e originalità, e spesso storicamente si è accompagnato a forme di attivismo politico. La scalatrice americana Fanny Bullock Workman, all’inizio del XX secolo, giunse sulla cima del monte Karakorum sventolando un foglio con la scritta: “Diritto di voto alle donne”.
Libere di viaggiare e libere per viaggiare: è questa la doppia tensione che percorre il saggio di Azema, che ha all’attivo anche uno stile di scrittura squisito che lo fa godibile come un racconto. Le storie di Jeanne Barret (1740-1807), prima donna ad aver fatto il giro del mondo, fingendosi marinaio; di Alexandra David-Néel (1868-1969) che si travestì da mendicante per entrare a Lhasa; della giornalista americana Nellie Bly (1864-1922), che in un atto di sfida circumnavigò il globo in 72 giorni, si intrecciano per osservare come le donne abitano il mondo, come attraversano le proprie frontiere, come occupano gli spazi che vengono loro negati da una tradizione di viaggio sostanzialmente misogina. Sì perchè quel maschile che si è autoproclamato neutro nella letteratura di viaggio, porta con sè una visione del femminile come mero strumento erotico, su un asse che va dalla donna in ogni porto per un marinaio al turismo sessuale e pedofilo. Memorabile il ripescaggio di alcuni passaggi di Pierre Loti, scrittore e viaggiatore francese: nel 1888 raccontava del suo matrimonio lampo in Giappone, organizzato da una sorta di agenzia cui aveva affidato il compito di fornirgli una moglie giapponese, anche se dalle sue parole sembrava più interessato a un soprammobile, un oggetto decorativo. “Questa qui ha quasi l’aria di pensare” scriveva dopo vari giorni di vita in comune in cui, stranamente, la ragazza non mostrava alcuna gioia per il matrimonio forzato, e continuava: “L’ho presa per distrarmi, e preferirei molto vedere in lei uno di quei visi insignificanti, senza problemi, che hanno le altre”. Le altre, quelle non costrette a sposare uno sconosciuto straniero insomma.
“Decolonizzare il viaggio” si intitola uno dei capitoli del libro. Scrive Azema: “Il viaggio è anche un esercizio di umiltà. Rifiutare di essere dominati vuol dire rifiutare di dominare. Vuol dire creare un rapporto da pari a pari con il mondo, un’armonia condivisa, un equilibrio tra l’essere umano e la natura, tra l’essere umano e il resto delle creature viventi, in una logica di coabitazione, di coevoluzione”. Viaggiare dunque non è appropriarsi dell’altro, ma appropriarsi di se stessi attraverso l’esperienza dell’altro. È l’essenza di quel femminismo che porta le voci degli oppressi fuori dal silenzio e depone il privilegio dal suo piedistallo. Dunque la risposta è sì, la questione del viaggio femminile può essere affrontata in ottica femminista. Che vuol dire semplicemente imparare ad “occupare il posto che avremmo preso facilmente se fossimo stati uomini: ecco l’obiettivo di un approccio femminista al viaggio”. Vengono i brividi, così. E viene anche voglia di partire, sì.
Titolo: Donne in viaggio. Storie e itinerari di emancipazione
Autrice: Lucie Azema
Traduttrice: Nunzia De Palma
Editore: Tlon
Prezzo: 18€
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