Ci sono due attività fondamentali alla base della sopravvivenza umana, e paradossalmente sono l’una all’opposto dell’altra. Una è l’attività del prendere: pensiamo alla caccia che ci ha consentito di sopravvivere per centinaia di migliaia di anni, avendo la meglio su animali ben più grossi e più forti di noi. Il nostro cervello ha registrato, attraverso migliaia di generazioni, che occorre “prendere” per avere di che mangiare. Che si prende per sottrazione: nella caccia qualcuno deve sempre perdere perché qualcun altro vinca. Che “più grosso è meglio è” perché ovviamente la selvaggina più grande nutre più a lungo la famiglia. Che si prende con la forza, visto che nessun animale accetterebbe mai di suicidarsi a beneficio della nostra alimentazione. Che si prende in modo causale e focalizzato: immaginate il percorso di un cacciatore, in che modo individua, insegue e cattura la sua preda.
Prendere è comunque un atto di cura, perché consente la sopravvivenza del gruppo familiare. Prendendo, l’uomo ama i propri cari e li protegge: prendendo di più sente di amarli e proteggerli di più.
Anche se da qualche millennio ci procacciamo il cibo in altri modi, le reazioni del cervello umano indicano che l’istinto predatorio lo ha cablato a fondo, condizionandolo. È possibile quindi ritrovare le stesse dinamiche del “prendere” nella versione odierna del sistema di sopravvivenza umano: l’economia capitalistica. È infatti un “gioco a somma zero” in cui è normale pensare di dover prendere più possibile, in modo deterministico, con la forza se occorre. È normale cercare sempre la crescita, perché una selvaggina più grande garantisce maggiore sopravvivenza. È normale pensare solo a quello ed escludere il resto, semplificando al massimo, perché dal nutrimento viene la sopravvivenza immediata, a breve termine. È normale usare la violenza e proteggere i territori, considerarli propri. È normale persino uccidere, in alcune circostanze. È normale sentirsi tanto più forti quanto più si è grossi e potenti, e considerare l’altro sempre un potenziale concorrente, sperando che sia più debole di noi per poterlo sopraffare. Alla dinamica del prendere appartiene la logica del consumo: prendo per me, prendo più che posso, non mi basta mai.
L’altra attività fondamentale per la sopravvivenza umana è quella del “dare”. Siamo una specie che fonda la propria esistenza sul saper stare insieme e sull’aiutarsi l’un l’altro. È stata la nostra intelligenza collettiva a consentirci di evolvere: sentire quel che sentono gli altri è talmente essenziale che abbiamo dei neuroni dedicati solo a quello, i neuroni specchio. Noi dobbiamo stare insieme per stare bene, e dobbiamo darci cura l’uno con l’altro per sopravvivere.
Nella prospettiva del dare, ciò che è piccolo deve essere nutrito (e non mangiato), ciò che è fragile deve essere protetto. Per poter dare ciò che serve, occorre vedere il quadro d’insieme e non solo il singolo obiettivo: occorre alzare le antenne in tutte le direzioni per cogliere i bisogni e collegare le cose tra di loro per comprenderle e così averne cura in modo efficace.
Anche il dare ha un obiettivo di crescita, ma è diverso da quello del prendere: è una crescita che riguarda gli altri prima di sé stessi, più lenta e a lungo, lunghissimo termine.
Se da una parte avevamo i cacciatori, dall’altra c’erano le madri e tutte quelle figure che nella comunità si prendevano cura dei piccoli, dei deboli, di tutti (è di diverse decine di migliaia di anni fa il primo segno di compassione umana, nel teschio di un anziano sopravvissuto a lungo senza denti).
Anche l’inclinazione al dare ha permeato la nostra società, ma rimanendo confinata ad aree considerate “minori”: la dimensione privata, quella educativa, quella spirituale, la cultura e il cosiddetto sociale. A ben vedere, la dimensione del dare non è arrivata nemmeno in quello che dovrebbe essere uno dei suoi bacini naturali, la gestione della salute, che invece ha assunto un modello economico.
Al contrario del prendere, il dare non è un gioco a somma zero. Si può dare a molti e, in molti casi, dare lascia qualcosa in più anche a chi dà. Chi riceve può dare a sua volta, con un effetto virtuoso di moltiplicazione. Dare non consuma: genera, ed è autosufficiente. Dare richiede una conoscenza e un riconoscimento del contesto e di chi si ha di fronte. In molte civiltà umane, nella dimensione del dare che dà origine alla comunità le porte non vengono mai chiuse: ci si protegge così gli uni con gli altri e la vicinanza diventa appartenenza.
Per dare non occorre essere grandi né forti, ma presenti e attenti, e dare è possibile per tutti, non solo per i potenti. Dare, però, non è un atto di generosità o di filantropia, non è “una cosa bella da fare quando si può”: dare è un’attività essenziale alla nostra sopravvivenza, e infatti viene premiata da ormoni come l’ossitocina. Anche il dare, quindi, dovrebbe trovare riscontro nelle regole politiche ed economiche che ci governano, dovrebbe esserne un presupposto, come lo è il prendere.
Il terzo incomodo tra queste due modalità di sopravvivenza che coesistono nella nostra specie è la relazione tra di loro: ciò a cui danno corpo insieme comporta infatti un ulteriore livello di complessità. Si tratta di una combinazione naturale, che mostra tutta la diversità con cui la Natura ci ha resi adattabili e resilienti: per dirla con le parole di Riccardo Cocciante, “se stiamo insieme ci sarà un perché”.
Il prendere e il dare si incastrano quindi, ma non è ovvio che entrambi questi aspetti così vitali trovino spazio in ciò che ne viene fuori, anzi. Abbiamo visto che storicamente ciò che prende finisce col disporre di un volume più alto di ciò che, invece, dà: non solo in termini quantitativi, ma anche di voce.
Come evitare che accada? Oggi più che mai è necessario riconoscere l’importanza di entrambi questi aspetti della natura umana. Fare spazio perché ambedue possano arricchire e orientare la nostra umanità renderebbe il nostro progresso più sostenibile sulla base di qualcosa che conosciamo e frequentiamo già dall’inizio dei nostri tempi: non solo la nostra capacità di prendere, ma anche la nostra potente propensione a dare.
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