Lo Smart Working, com’è noto, consente al lavoratore subordinato di eseguire la prestazione lavorativa scegliendo autonomamente “tempi” e “luoghi di lavoro”, con il solo vincolo del completamento delle “fasi, cicli ed obiettivi” predeterminati dal datore di lavoro. Questa libertà di scelta del luogo di lavoro nasconde però alcune insidie. Cosa accade, infatti, se il lavoratore decide di eseguire la propria prestazione lavorativa, in tutto o in parte, in uno stato diverso da quello in cui normalmente svolge la sua attività?
Il tema della mobilità internazionale degli smart worker è quanto mai attuale, come dimostra il recente intervento di Andrea Benigni, amministratore delegato di ECA Italia presso l’Unione Industriali di Torino nell’ambito del workshop “International Remote Working: un modello in evoluzione” dello scorso 17 maggio. Lo studio di ECA Italia, basato su un campione di 44 aziende (di cui l’88% con headquarter in Italia, appartenenti per il 29% al settore manifatturiero), ha evidenziato come circa il 53% del campione stesso abbia autorizzato lo smart working dall’estero esclusivamente nel periodo dell’emergenza Covid-19. Al contrario, solo il 3% delle aziende oggetto della ricerca si è dichiarato disposto a consentire il lavoro da remoto a livello internazionale su base stabile, anche dopo la cessazione dell’emergenza pandemica (senza peraltro distinzione tra le varie figure professionali presenti nell’organico aziendale). Interessante è anche il dato, pari al 18% del campione, relativo alle aziende che hanno escluso, anche nel corso della pandemia, la possibilità dell’international remote working (fonte: Osservatorio ECA Italia 2021).
Occorre quindi comprendere il perché il fenomeno trovi, per lo meno sul lungo periodo, una certa resistenza da parte delle imprese. Ebbene, i profili da tenere in considerazione sono almeno di due ordini: quello previdenziale e quello puramente fiscale. Con riferimento al profilo contributivo, in ambito comunitario, occorre muovere dal principio di territorialità. Ed infatti, l’art. 11 del Regolamento UE 883/2004 e l’art. 13 del Regolamento UE 1408/1971 prevedono che il lavoratore sia assoggettato, da un punto di vista previdenziale, alla legislazione dello Stato estero in cui esegue la prestazione lavorativa, a prescindere dalla propria residenza. In ragione di tale principio, ed in assenza – perlomeno allo stato attuale – di una deroga espressa (come avviene, a certe condizioni, nel caso del distacco internazionale) o di specifichi accordi tra gli enti previdenziali coinvolti (quello italiano e quello estero), il datore di lavoro, così come il lavoratore, sono dunque obbligati ad assolvere ai propri obblighi previdenziali con versamento della contribuzione agli enti preposti del Paese estero di svolgimento dell’attività lavorativa. Il che, come si può immaginare, rende potenzialmente rischiosa la mobilità internazionale dello smart worker (specie qualora assuma caratteri di stabilità).
Ancor più complessi appaiono i profili fiscali dell’international smart working.
Ed infatti, in base all’art. 23, comma 2, lettera c), del Testo Unico delle Imposte sui Redditi, si considerano prodotti in Italia “i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato“. Se, pertanto, il lavoratore, residente fiscalmente in Italia, opera nel territorio di un altro Stato, scatta un tema di potenziale doppia imposizione fiscale. Le convenzioni contro le doppie imposizioni, ove applicabili, consentono solitamente di evitare la stessa solo ove il lavoratore presti la propria attività lavorativa in uno stato diverso da quello in cui è residente per meno di 183 giorni nell’arco del periodo di imposta (a condizione, peraltro che le remunerazioni siano pagate da un datore di lavoro che non risiede nello Stato estero in cui è svolta l’attività lavorativa e che l’onere del pagamento della retribuzione non sia sostenuto da una stabile organizzazione che il datore di lavoro abbia nello Stato in cui si è svolta l’attività).
Vi è poi un’ulteriore potenziale rischio sul piano fiscale. L’operatività di un lavoratore dall’estero, al ricorrere anche di ulteriori specifici requisiti, potrebbe in teoria implicare il rischio per il datore di lavoro italiano di imponibilità dei propri redditi di impresa presso lo stato estero ove il lavoratore abbia svolto la propria attività lavorativa (in sostanza, il rischio sarebbe quello dell’accertamento di una “stabile organizzazione” all’estero).
Anche alla luce di queste criticità, molte imprese stanno “contrastando” il fenomeno dell’international smart working inserendo negli accordi individuali, siglati ai sensi della L.. n. 81/2017, apposite clausole per escludere la possibilità per i dipendenti di lavorare al di fuori del territorio italiano. Tuttavia, tenuto conto della portata del fenomeno, sembrano maturi i tempi per un intervento normativo in materia.
Interessante, ad esempio, è stata la presa di posizione da parte dell’INPS nel 2008 per la diversa fattispecie del telelavoro (v. messaggio INPS 9751/2008), ove è stata prospettata la soluzione di un apposito accordo tra gli enti previdenziali coinvolti al fine di mantenere la sola applicabilità degli oneri contributivi nel paese ove il lavoratore è già registrato.
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