E’ forse arrivato il momento di iniziare a parlare di quel che ci ha insegnato l’esperienza della pandemia? Sicuramente come prima cosa ci ha insegnato che quel momento sembra non arrivare mai del tutto: che ogni volta che pensiamo di essercela lasciata alle spalle può tornare in modi nuovi e diversi, al punto che molti di noi preferiscono pensarla come presente per sempre piuttosto che sopportare di passare ancora e ancora dall’illusione alla disillusione. Forse non passerà mai, forse diventerà un’influenza come tante altre (ma molto più famosa), forse cambierà nome e faccia… ma comunque intanto siamo cambiati noi, e questo merita un momento di pausa e di riflessione anche se non siamo certi di essere all’inizio di una nuova fase.
Se così non fosse, se aspettassimo un segnale ufficiale per definirci “post pandemici”, rischieremmo, come spesso accade nelle transizioni, di non acquisire mai la consapevolezza di quel che è stato e di come ci ha trasformati. Perché un segnale netto di fine, nelle transizioni, non c’è quasi mai. La coda lunga della fine delle transizioni è un mix che tiene insieme tre cose: la fine di ciò che era, l’incertezza di ciò che è, il respiro di ciò che sarà. Sono tre sensazioni nettamente diverse eppure convivono, alternandosi nella nostra quotidianità tra noto, ignoto, rimpianto, desiderato.
Le conversazioni, ce ne siamo accorti, sono cambiate. Le parole, le immagini, e quindi l’immaginario: in qualche modo sappiamo di aver vissuto qualcosa di straordinario (ossia fuori dall’ordinario) e in qualche modo, ogni tanto, sentiamo che questo ci chiama a uscirne diversi. Quando è “successo” il covid, soprattutto nei primi tempi, ci siamo domandati che cosa ci avesse portato via, quali nuove abitudini avesse indotto. Era troppo evidente che niente fosse più come prima: una lunga serie di routine era stata interrotta bruscamente. Adesso invece, questo ibrido “ritorno” ha contorni molto più sfumati e alla fin fine critici proprio perché apparentemente più negoziabili, meno determinati dall’urgenza.
Ed è così proprio perché noi siamo cambiati, e siamo cambiati perché:
1. Adesso sappiamo che tutto può cambiare all’improvviso, radicalmente e per tutti. Lo avevamo letto nei libri di storia e immaginato, i più anziani lo hanno vissuto con le guerre, alcune popolazioni con altri eventi travolgenti nei loro Paesi, tutti individualmente lo abbiamo sperimentato quando qualcosa di grande e inaspettato è successo nelle nostre vite, ma adesso questa esperienza ci ha colpiti tutti, nessuno escluso, e quindi è nuova per tutta l’umanità. Tutto può cambiare, non c’è niente che debba restare come lo abbiamo sempre visto: pensavamo che i cambi di abitudine andassero negoziati, insegnati, indotti, pensavamo che la tecnologia avrebbe cambiato un po’ per volta il nostro modo di lavorare, e soprattutto pensavamo che cambiare alcune cose avrebbe richiesto del tempo, dei compromessi. Invece il nostro mondo si è capovolto nello spazio di un mattino: aeroporti, strade e stazioni deserti, mascherine sul volto, check point di temperatura e pass agli ingressi, coprifuoco, feste di Natale senza la famiglia, hub vaccinali gestiti dai militari.
Insomma, abbiamo imparato che tutto può cambiare.
2. Abbiamo visto con occhi nuovi le nostre vite. Abbiamo visto le nostre case di giorno, le abbiamo abitate 24/7. Abbiamo convissuto con i nostri familiari gomito a gomito, occupando i nostri spazi in modo nuovo. Abbiamo riconsiderato la misura del tempo, subendo la tirannia insieme alla libertà del cosiddetto tempo digitale, che essendo “finito” ottimizza ma non lascia spazio alle pause. Abbiamo visto anche quel che non c’era più: quella realtà scontata che è diventata visibile per assenza, come le relazioni umane non governate, i momenti di “non agenda”, gli odori e i sapori di luoghi che fino a quel momento ci erano sembrati banali – i nostri uffici. Così abbiamo capito meglio che cosa ci piace delle nostre vite e che cosa ci piace del nostro lavoro: che cosa non vogliamo più perdere della nostra dimensione privata, che cosa vogliamo tornare a cercare di quella lavorativa. Sono scoperte che abbiamo fatto senza volerlo, all’improvviso, ma non si cancellano: per questo la nuova fase non sarà mai un “ritorno”, tornare indietro non si può perché ora sappiamo di più.
Insomma, abbiamo imparato che alcune cose ci piacciono e non vogliamo perderle di nuovo, mentre altre non sono necessarie e non le accetteremo come facevamo prima, come se fosse l’unica opzione disponibile “di default”.
3. Abbiamo capito che la storia siamo noi, come cantava Francesco De Gregori, e nessuno si senta escluso. Il tempo si è fatto visibile: sono anni che resteranno nel calendario per poi entrare nei libri di storia, e noi ne facciamo parte. L’umanità del futuro stabilirà un tempo pre-pandemico e uno post-pandemico, tracciando una linea che ci responsabilizza perché ci dà delle scelte da fare. Non a tutti è permesso di scegliere: nella normalità, lo status quo è sempre la scelta più ovvia, anche quando è insostenibile. Ma quello status quo è “saltato” e siamo sulla linea di partenza di una nuova possibilità. I primi segnali non sono confortanti, ma forse sono più le conseguenze di un’era che muore che i prodromi di un’era che nasce. Sono gli ultimi colpi di coda di un dinosauro morente: la società globalizzante pre-covid che dava certe regole per scontate e certi successi per assodati, e che si è scontrata contro i propri limiti. Sono colpi terribili e pericolosi, ma purtroppo sono proprio i traumi ad aprire le fratture necessarie a far passare la luce, come canta Leonard Cohen.
Insomma, abbiamo capito che, in questa nuova linea temporale così visibile e faticosa, la storia è adesso. E noi ne facciamo parte.
L’umanità ha questa incredibile capacità di apprendere: adattarsi è questo, è apprendere e modificarsi. La “generazione covid” (tutti noi abitanti del mondo in questa epoca, qualunque età abbiamo) ha il compito storico di imparare da quel che ci è successo e di stabilire una nuova rotta, con l’opportunità unica di tracciare una rotta completamente diversa dalla precedente.
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