Milano, interno giorno in una grande azienda, un amministratore delegato urla contro una donna incinta al settimo mese, lancia una penna, la sbatte fuori. È il 2011 e si tratta di un episodio come tanti altri: in un Paese in cui è necessario aggiungere l’aggettivo “gentile” al termine leadership perché questa capacità riacquisti un po’ di umanità, di quel manager qualcuno continuerà a dire che ha un cattivo carattere ma che “alla fine porta i risultati”. Ha una leadership “non gentile”, insomma, ma pur sempre leadership.
Infatti lui è ancora lì, mentre quella donna (che sono io) è andata via: in questi dieci anni ha scritto un libro e fondato un’impresa per dimostrare al mondo che la maternità non è un impedimento, ma un master. Anzi, che esperienze come la nascita di un figlio e la cura dei propri genitori sono addirittura portatrici di un modello di leadership radicalmente diverso, che attinge all’istinto della specie umana verso la vita e il sapersi prendere cura gli uni degli altri.
Esiste, questo modello, da millenni: ha permeato quasi cinquemila anni di civiltà nel bacino mediterraneo, dando vita agli insediamenti umani più avanzati e numerosi di quell’epoca, di cui resta traccia in migliaia di reperti archeologici che parlano di nascita, fioritura e vita. Ma non ne sappiamo nulla, o quasi: le incredibili scoperte dell’archeologa lituano-americana Marija Gimbutas non sono mai diventate “storia” perché dissonanti con la narrazione prevalente, quella che ci è rimasta dopo che i Kurgan, popolazioni di guerrieri indoeuropei, hanno distrutto completamente queste città pacifiche e hanno prevalso come civiltà dominante nel continente europeo. Scrive l’Enciclopedia delle Donne:
“Marija scopre che la forma femminile riflette la centralità delle donne nella vita culturale e religiosa. Le immagini di Dee femminili e Dei maschili esprimono una partecipazione sacra nei grandi cicli naturali di fertilità, nascita, morte e rigenerazione. La concezione del tempo è ciclica, non lineare. Questa civiltà non conosce l’uso delle armi, pur avendo già sviluppato la metallurgia. Gli insediamenti sono posti in pianura e lungo i corsi d’acqua; nelle sepolture non vi sono distinzioni di rango: se ne deduce quindi una società che si sviluppa in grandi centri – anche di 15.000 abitanti- tendenzialmente egualitaria”.
Non è poi strano guardare alla maternità come fonte della vita e alla vita come “regola” del mondo, eppure non è così che si è sviluppata la nostra società odierna, che vede invece nel potere qualcosa di più prossimo al concetto di distruzione che a quello di creazione. Non lontano da questa concezione del potere come prevalenza tra forze, in un mondo del lavoro in cui proprio il modello di leadership continua ad attingere al mito del gioco a somma zero, ci sembra quindi naturale dedicare nicchie specializzate di attenzione ai diversi. Così, sullo sfondo corre una definizione implicita di chi siano i lavoratori standard, da cui ci si allontana poi per gradi verso categorie sempre più protette a mano a mano che ne aumenta la distanza dallo standard. Nasce quindi una leadership di nicchia, gentile, per valorizzare i cosiddetti diversi, mentre per tutti gli altri va ancora bene una leadership che gentile non è. La verità è che, quando cominciano a moltiplicarsi categorie e aggettivi, è segno che la cultura mostra la corda. Le regole e le definizioni non precedono la realtà ma ne allacciano i significati per mantenerla interpretabile e prevedibile nel tempo: se gli elementi che ne restano fuori iniziano a essere troppi, aggiungere un aggettivo non basta, occorre aggiornare regole e definizioni.
Ma non sta succedendo: in Italia e nel resto del mondo, le definizioni prevalenti stanno facendo in alcuni casi addirittura marcia indietro e si moltiplicano i tentativi di dare nomi nuovi a fenomeni sempre più ampi, che le vecchie mappe non includono e le regole attuali non sanno proteggere. Come il fenomeno della discriminazione delle madri che lavorano e, più in generale, quella delle donne: l’esempio più pesante (almeno in termini numerici, poiché le donne sono la maggioranza della popolazione mondiale) di deviazione dallo standard, ovvero di diversità, che esista. Se stiamo ancora qui, nel giorno della Festa della Mamma del 2022, a contare le dimissioni delle madri che lavorano, a indignarci e a commentare storie di donne demansionate, mobbizzate, licenziate, a domandarci dove siano i sensi di colpa di una madre che lavora (nello spazio) o a festeggiare come eccezionali i casi in cui una donna incinta viene assunta o addirittura promossa… qualcosa di sbagliato c’è.
Un regalo alle madri, forse l’unico veramente significativo di questo secolo, è arrivato qualche settimana fa dalla Corte Costituzionale che, usando come fonte la Costituzione Italiana, ha fatto notare che attribuire in automatico e di default il solo cognome paterno ai figli è lesivo dei loro diritti civili, nonché del principio di uguaglianza sancito dall’articolo 3 (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso). E qui si vede tutta la potenza della cultura prevalente: non poche donne e uomini hanno commentato che si è trattato di una decisione che ci complicherà la vita, che non era poi così necessaria o urgente, che alla fine un nome cosa vuoi che sia. Ma il cuore di questa decisione non è “di chi” sia il nome: è la possibilità di scegliere, è l’improvvisa comparsa di un diritto che si porta dietro identità e consapevolezza, per gli uomini e per le donne. Dobbiamo investire in consapevolezza e in conoscenza, così da smettere di cercare aggettivi nuovi per dare senso a parole che hanno perso la loro capacità di descrivere la realtà. Dobbiamo mettere in discussione tutto l’invisibile e renderlo visibile dando alle cose il loro vero nome e dando a noi stessi la consapevolezza di poter scegliere. Infine, come dimostra in modo inequivocabile Tomas Chamorro-Premuzic, è ora di accettare che la diversità, come la leadership, non richiede che si lavori per conformare i nuovi entranti o per dargli i giusti attributi “diversi”, quanto piuttosto che si lavori per trasformare chi c’era già. Questo sì che sarebbe un buon modo per festeggiare le mamme in Italia, nel 2022.
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