Tutti gli indicatori del mercato del lavoro convergono nel dimostrare che il nostro Paese è molto meno accogliente nei confronti dei giovani rispetto agli altri Paesi europei.
Il tasso di disoccupazione nella classe d’età 15-29 anni è tra i più alti d’Europa: 22,1% contro il 13,3% della media EU27 (2020). È pur vero che Spagna e Grecia fanno peggio di noi (29,2% e 29,8% rispettivamente), ma il problema è comune a tutte le età, non riguarda solo i giovani; questi Paesi infatti sono in testa alla graduatoria anche nella fascia 50-64 anni, mentre nella stessa classe d’età il tasso di disoccupazione italiano è sostanzialmente uguale alla media europea (rispettivamente 5,5% contro 5,1%).
Anche i NEET (giovani che non studiano e non lavorano in età 15-29 anni) sono in Italia più che in ogni altro Paese europeo: rientra in questa categoria quasi un giovane su quattro (23.3%), una percentuale di dieci punti maggiore rispetto alla media europea (13,7%).
I dati di flusso di fonte Eurostat (media annua delle transizioni trimestrali 2020) confermano la difficoltà di uscire da questa situazione: la probabilità di trovare lavoro passando dalla condizione di inattività a quella di occupato è molto bassa, solo il 3% delle persone di 15-24 anni ci riescono nel nostro Paese, contro una probabilità quadrupla dei giovani in Finlandia, Danimarca e Olanda, e più che doppia in Belgio, Irlanda, Slovenia, Svezia e Austria.
La condizione dei giovani italiani non migliora neppure dal punto di vista degli occupati: tocca a loro la parte maggiore dei contratti meno graditi, e con una quota sempre nettamente peggiore rispetto agli altri Paesi europei. In Italia il 45% degli occupati di 15-29 anni lavora con un contratto a termine (Figura 1). Anche in questo caso è da notare che il problema è specificamente giovanile; per l’aggregato 15-64 anni infatti la quota di occupati con contratto a termine è nel nostro Paese solo di poco maggiore rispetto alla media europea (15,2% contro 13,5%), e si riduce ulteriormente per la classe d’età 55-64 anni (6,6% contro 6,1%).
I dati di flusso sottolineano la persistenza di questo problema: la probabilità di un giovane in età 25-39 anni di passare da un contratto a termine a un contratto a tempo indeterminato è molto bassa nel nostro Paese: solo 7%, contro una probabilità più che tripla in Danimarca, Portogallo e Ungheria, e più che doppia in Bulgaria, Svezia, Spagna e Finlandia.
Il lavoro part-time non è necessariamente un male, quando è volontario, e i dati mostrano che anche tra i giovani italiani la quota di occupati a tempo parziale è sostanzialmente in linea con la media europea (23,8% contro 22,6%). Ma se consideriamo la sola componente involontaria del part-time, ecco che il nostro Paese si posiziona nettamente al primo posto della graduatoria (Figura 2), e la distanza rispetto alla media europea aumenta a dismisura: 78,3% in Italia contro il 25,7% della media EU27.
E i dati di flusso confermano anche in questo caso la persistenza del problema: la probabilità di un occupato in età 25-39 anni di passare da un contratto part-time a un contratto a tempo pieno è solo del 7% in Italia, contro una probabilità più che tripla in Danimarca, Portogallo e Ungheria, e più che doppia in Bulgaria, Svezia, Spagna, Finlandia e Belgio.
Resta da aggiungere ancora un dato, che di solito non compare nella rappresentazione dei problemi del mercato del lavoro giovanile: nel nostro Paese sono davvero scarse le nuove leve abbinate alle posizioni apicali del sistema economico. In Italia attualmente solo il 14% dei dirigenti ha meno di quarant’anni, contro il 31% della media europea. I nostri giovani manager sono meno della metà rispetto a quelli della Francia, dell’Austria, del Belgio, dell’Irlanda della Grecia e dei Paesi Bassi.
Quest’ultimo dato non è irrilevante perché la percezione della produttività individuale non è indipendente dalle variabili demografiche che riflettono comuni valori ed esperienze (Riordan, 2000); pertanto, un maggior avvicendamento generazionale nei ruoli dirigenziali potrebbe innescare un meccanismo favorevole alla componente giovanile dell’occupazione grazie al paradigma somiglianza-attrazione per cui i giovani favoriscono i giovani (Hendrik, Van Dalen e Henkens, 2010).
P.S.: il 2022 è stato proclamato dalla Commissione l’Anno europeo dei giovani.
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