A volte ritornano. O, quantomeno, ci provano. La categoria dei “returners”, ossia di coloro che provano a rientrare nel mondo del lavoro dopo un periodo di assenza, si è molto arricchita negli ultimi tempi. Il fenomeno non aveva ancora un nome così moderno quando riguardava “solo” le madri: le madri sono sempre state più semplicemente donne inoccupate che a un certo punto, dopo il congedo di maternità che spesso ne ha decretato la fine della carriera in corso, hanno provato a rimettersi in gioco, lo hanno fatto attraverso fatiche improbe e spesso, spessissimo, hanno fallito (loro… oppure il sistema?). L’Italia ha su questo tema un primato interessante: è il Paese europeo in cui è più difficile per una donna rientrare nel mondo del lavoro anche quando il figlio cresce. Il problema è particolarmente visibile nel CV: il cosiddetto curriculum vitae, infatti, non ha uno spazio dedicato agli eventi della vita (difficile inserire la maternità tra hobby e interessi) e quindi segna inesorabilmente un buco nel periodo in cui il suo proprietario non studia né lavora. Che sarà successo a quella persona durante quel periodo di invisibilità?
“I candidati che hanno un periodo di vuoto (“gap”) nel curriculum possono apparire non ambiziosi o deboli nelle competenze e hanno il 45% di probabilità in meno di essere chiamati per un colloquio”.
E’ la sentenza senza appello di un articolo dell’Harvard Business Review sui “5 modi per riportare le donne al lavoro post pandemia”. Quindi, una volta su due basta il fatto di avere un vuoto temporale nel CV per non essere nemmeno presi in considerazione: ciò che non c’è pesa più di quel che c’è. Adesso però l’emergere del fenomeno dei returners potrebbe togliere la maternità dal limbo un po’ isolato di chi “non si sa cosa sia andato a fare”: da una parte si sono ingrossate e diversificate le fila di chi è stato via, anche grazie al congedo collettivo globale e prolungato provocato dal covid, dall’altra il bisogno di talenti “diversi” è cresciuto molto, insieme alla necessità delle aziende di cercarli in posti nuovi e di rendersi allettanti, perché anche la competizione è cresciuta. I dipartimenti HR stanno insomma mettendo a fuoco che forse le migliori risorse sono nascoste sotto il loro naso: sono le persone invisibili che bussano a porte che troppo spesso le eliminano in partenza.
E’ la stessa procedura di candidatura, infatti, a tagliar fuori i returners: e più sono preparati, maggiore è questo effetto. Secondo una ricerca di Accenture, è proprio il processo di selezione a scoraggiare il 24% dei diplomati e il 36% dei laureati: descrizioni troppo dettagliate di ciò che si cerca non possono corrispondere a quanto i returners sentono di possedere, soprattutto se viene considerato solo quanto avvenuto “prima” del periodo di assenza. Il punto di vista rimane dunque che durante l’assenza non si sia appreso nulla. Nella migliore delle ipotesi, le aziende attivano programmi per invitare i returners a riaccendere i motori e rinfrescare le competenze anche “on the job”, affermando in modo implicito che la ripartenza può avvenire nonostante il periodo di assenza: resta il fatto che l’assenza venga considerata, ai fini lavorativi, tempo perso.
Ma lo è? Secondo i dati dell’azienda per cui lavoro, Lifeed, il 70% dei genitori e dei caregiver ha migliorato le proprie capacità di leadership a causa della pandemia. E’ solo un esempio, uno dei molti possibili, di come eventi inaspettati e travolgenti – proprio quelli che spesso spingono le persone a uscire dal mondo del lavoro – siano motori di competenze soft. Competenze “morbide” oppure, in una definizione molto più attuale, “competenze durevoli”: sono competenze che servono sempre perché ci rendono capaci di muoverci e lavorare insieme agli altri, di adattarci e di risolvere problemi, di comprendere situazioni complesse… e anche di apprendere tutte le altre competenze. Oggi i programmi dedicati ai returners lavorano soprattutto sulle competenze hard: sono le competenze tecniche a restare indietro quando si smette di frequentare l’apparato tecnico della propria professione. Allo stesso modo, in direzione ostinata e contraria, si potrebbe quindi pensare di cercare, mettere in luce e valorizzare nei returners le capacità che l’assenza ha usato intensamente e allenato. Le persone ripartirebbero così da un più, invece che da un meno.
Di recente, il concetto di returners si è esteso ai lavoratori in uscita da Ucraina e Russia: sono persone che “ritornano” nel senso che le aziende stanno pensando a come accoglierle, integrarle e farle lavorare in altri Paesi. Profughi, migranti, madri, caregiver, padri, persone che sono state malate: chi potrebbe dire che mentre erano via non abbiano appreso competenze chiave, di cui il mondo del lavoro oggi ha molto bisogno? E’ fragile ma è anche fortissimo, chi ha navigato le tempeste della vita: ed è come lo si guarda che fa la differenza.