Non c’è inclusione senza salute mentale. E non c’è salute mentale senza inclusione. Il rapporto tra benessere psicologico e i programmi di DE&I (Diversity, Equity, Inclusion) in azienda è indissolubile. Eppure, spesso, poco evidente. Un ambiente di lavoro in cui si sente di avere la libertà e le condizioni – di fiducia, ascolto e riconoscimento – per poter esprimersi nella propria unicità, permette infatti alle persone di stare bene. Per contro, indossare una maschera può, alla lunga, portare a malessere emotivo e insoddisfazione.
La sicurezza psicologica, ossia quella condizione in cui le persone si sentono sicure nel poter condividere punti di vista, idee, informazioni su di sé, dovrebbe essere pilastro fondante e prerogativa di qualsiasi iniziativa DE&I. Troppo spesso, invece, le persone, soprattutto se appartenenti a minoranze, sperimentano ansia e stress legati proprio all’impossibilità di poter esprimere sé stesse. Nel caso delle minoranze (etniche, di genere, ecc.) si parla nello specifico di minority stress, ossia lo stress sociale – spesso cronico – che deriva dall’essere oggetto di pregiudizi, discriminazioni ed esclusione. Non c’è salute mentale senza inclusione.
Non sorprende, dunque, che secondo una ricerca globale di Boston Consulting Group, il 50% dei lavoratori e delle lavoratrici intervistati abbia cambiato lavoro a causa di una cultura organizzativa non inclusiva. Il 75% delle persone LGBTQI+ dichiara di aver vissuto situazioni spiacevoli legate alla propria identità di genere o orientamento sessuale, informazioni, quest’ultima, che il 40% preferisce tacere. Questo, lo scenario in cui le aziende sono immerse.
La mancanza di sicurezza psicologica e l’impossibilità di esprimersi non sono tuttavia gli unici elementi in gioco nel rapporto tra inclusione e salute mentale. I programmi di DE&I si occupano di pari opportunità, identità di genere, diversità culturale, disabilità, età. Manca, frequentemente, una voce alla lista: la dimensione mentale. Secondo le stime dell’OMS, depressione, disturbi d’ansia e disturbo bipolare sono le malattie mentali più diffuse a livello globale. Secondo alcune stime, in Italia la depressione colpisce 3 milioni di persone, di cui 2 milioni sono donne. Eppure, nei contesti organizzativi vengono taciute. Le ragioni sono tante, ma hanno a che fare con una matrice comune: la mancanza di consapevolezza sul tema. Non c’è inclusione senza salute mentale.
Le aziende dovrebbero guardare alla persona nella sua complessità e interezza, includendo a tutti gli effetti la dimensione mentale nella lista delle diversità. In un’ottica di person integration è infatti essenziale integrare i tanti e sfaccettati aspetti che costituiscono qualsiasi unicità. Come posso stare bene se devo nascondere il mio orientamento sessuale sul posto di lavoro? Se devo tacere i miei episodi depressivi? Se non mi sento al sicuro nel raccontare le mie origini? E se non sto bene, come posso lavorare bene?
Una prospettiva integrata di persona genera un valore enorme: quanto perdono le aziende se guardano ai loro dipendenti come funzioni e ruoli, piuttosto che nomi, caratteristiche personali, storie ed esperienze di vita, identità complesse e non puntiformi? Come scriveva magistralmente Pirandello: “Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti”. È giunto il momento di popolare le aziende di volti.
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